Tra le email pubblicitarie che affollano la mia casella di posta, ogni settimana ce ne sono parecchie chiaramente rivolte a persone più giovani e che hanno più piercing di me: tra le ultime proposte ho trovato il karaoke punk, un cabaret sui tarocchi e una serata di racconti sui tatuaggi. Qualche mese fa mi sono reso conto che cominciavo a leggerle con piacere, godendo del fatto che non avrei partecipato a nessuna di quelle iniziative. Non intendo sminuire il cabaret sui tarocchi. Be’, forse un po’ sì. Ma il mio piacere non nasce dalla presunzione che i miei passatempi siano oggettivamente più interessanti. È solo che essere consapevole di quello che non faccio rinforza la mia convinzione di aver scelto quello che faccio.

Una cena in casa con gli amici è piacevole. Ma lo è ancora di più quando sai che invece potresti trovarti in un locale affollato dall’altra parte della città o a mangiare in un ristorante dove non ti danno un tavolo fino a quando non sono arrivati tutti i tuoi amici. Questa sensazione è in netto contrasto con una delle malattie dei nostri tempi: la Fomo (fear of missing out), cioè la paura di perdersi qualcosa. Secondo l’imprenditrice Caterina Fake, che ha contribuito a rendere popolare questo termine, la Fomo è “un vecchio problema, aggravato dalla tecnologia”: non siamo mai stati così consapevoli di quello che gli altri fanno e noi no.

Facebook e gli altri social network provocano Fomo, e ne traggono profitto: li controlliamo continuamente anche per avere la sensazione di partecipare a distanza. Era solo questione di tempo prima che qualcuno – in questo caso un collega di Fake, l’imprenditore Anil Dash – inventasse l’acronimo contrario, che riassume perfettamente il mio atteggiamento nei confronti del cabaret sui tarocchi: Jomo, o la gioia di perdersi qualcosa.

“A New York ogni giorno succede qualcosa che altrove sarebbe l’evento dell’anno”, osserva Dash. “E nella maggior parte dei casi, noi non ci saremo”. Si è reso conto per la prima volta che questo potesse essere fonte di piacere quando è nato suo figlio. Improvvisamente, rinunciare a qualcosa di importante – per esempio, un concerto di Prince – era un modo per affermare che la paternità lo era di più. Secondo Dash “possiamo, e dovremmo, provare un senso di serenità e di piacere nel sapere che ci sono persone che si stanno divertendo a fare qualcosa che ci sarebbe piaciuto fare, ma a cui abbiamo deciso di rinunciare”.

In linea con lui, l’educatrice e designer Liz Danzico, recentemente ha scritto sul suo blog, dove tiene una lista dei progetti a cui ha rinunciato: “Quando dico di no a qualcosa lo aggiungo subito all’elenco. Sto facendo liste di città che non ho visto, di aerei che non ho preso e di ore risparmiate. Qualche mese dopo mi rendo conto che ho fatto qualcosa di meglio”.

Se la Fomo è un modo per valutare le nostre scelte, la Jomo è il sistema per riprenderne possesso. E se l’era della Fomo si rivelasse un’epoca di transizione, innescata dal funzionamento dei social network? Una volta che saremo tutti superconnessi e ci saremo abituati a esserlo, forse prenderemo coscienza del fatto che c’è sempre un numero infinito di cose belle o interessanti che non stiamo facendo. Forse a quel punto potremo finalmente rilassarci.

In fondo non ci stiamo veramente “perdendo” qualcosa se, inevitabilmente, la stanno perdendo quasi tutti gli altri. Stare male per questo è come disperarsi per non essere in grado di contare all’infinito. Vi auguro di passare una buona settimana, e di godervi tutto quello che non state facendo.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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