Non bisogna per forza essere religiosi per sperimentare un salutare superamento dell’io e sentirsi in comunione con l’universo. Dai sondaggi risulta che il 20 per cento degli inglesi e il 25 per cento degli statunitensi si definirebbero “spirituali ma non religiosi”. Gli altri probabilmente hanno alzato gli occhi al cielo e borbottato: “Ma per piacere!”.
È una frase irritante che trasuda un senso di compiaciuta superiorità (“Sono più profondo di un ateo ma più razionale di un credente!”) e di ingenuità new age. Eppure, sebbene con una certa riluttanza, è così che mi definirei anch’io. Per questo ho sobbalzato quando ho scoperto che il famoso ateo Sam Harris (con cui di solito non sono d’accordo) è uno di noi. Mentre attaccava la religione in pubblico, sembra che in privato Harris abbia passato anni a studiare i guru in India, a partecipare a ritiri spirituali e a usare droghe psichedeliche per sentirsi tutt’uno con l’universo.
Il suo nuovo libro, Waking up, sostiene con forza che non c’è nessuna contraddizione in questo: è ora che i razionalisti convinti che la parola “spiritualità” non abbia alcun senso smettano di essere così presuntuosi. L’idea di spiritualità di Harris nasce dalla presa di coscienza che la sensazione di essere un’entità distinta dalle altre, “che ci sia un io appollaiato da qualche parte dietro gli occhi che guarda il mondo come qualcosa di separato da noi” è un’illusione, che può essere modificata o perfino cancellata. La meditazione e i funghi allucinogeni sono un modo per riuscirci.
Ma perché prendersi la briga di farlo? Perché è proprio non essere coscienti di questo che ci tiene intrappolati nell’interminabile ricerca di cose che pensiamo ci renderanno felici: rapporti umani, denaro, potere. Questa ricerca colloca la felicità nel futuro, ma “la realtà della nostra vita è sempre adesso”. Se usciamo da quell’io, anche solo per un breve periodo, entriamo nel presente e scopriamo un tipo di felicità che non dipende dal soddisfacimento di certi criteri.
“È possibile essere felici prima che succeda qualcosa, prima che i nostri desideri siano soddisfatti, nonostante il dolore fisico, la vecchiaia, la malattia e la morte?”. Secondo Harris, la risposta è sì. Questo è l’abc del buddismo. Ma il contributo di Harris consiste nel dimostrare che gli atei non hanno nulla da temere.
Il problema della religione non è che i suoi seguaci vivono esperienze spirituali, ma che di conseguenza si formano delle convinzioni. E non è forse un problema per le forze della ragione che, “se un giorno qualcuno si sveglia provando un amore sconfinato per tutti gli esseri senzienti”, gli unici a prenderlo sul serio saranno i membri di sette e religioni?
Ma Harris è altrettanto fermo nel sostenere che per lui la parola “spiritualità” non è sinonimo di meraviglia, di “timore reverenziale davanti alla bellezza del cielo notturno”, come per certi scienziati. Per lui è un cambiamento molto più basilare della percezione della realtà. E la meditazione non deve necessariamente essere vista come una pratica eccentrica, è solo un modo di vivere il presente. Si potrebbe addirittura sostenere che la cosa strana è non meditare.
Personalmente, andrei anche oltre. Penso che molte delle tradizioni religiose occidentali che Harris deride siano anche, e forse soprattutto, rituali che riportano l’attenzione al presente.
Come ha dimostrato Karen Armstrong, in quasi tutti il corso della storia, le persone religiose sarebbero rimaste perplesse davanti a una domanda come “Dio esiste?”. La religione era una questione di pratiche, non di fede.
Ma l’essenza della sua tesi rimane valida. E se uscire dalla propria individualità significa qualcosa, nel mio caso significa sicuramente smettere, almeno temporaneamente, di lanciare egocentriche frecciate a Sam Harris.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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