Il problema delle “lezioni di vita che possiamo apprendere dagli imprenditori più famosi del mondo” è legato alla molla che ci spinge a comportarci in un certo modo: solo perché Elon Musk lavora 120 ore alla settimana, non significa che se lo facciamo anche noi avremo lo stesso successo (il punto qui non è se la vita di Musk sia invidiabile o meno, tutto dipende dalla passione che abbiamo per i viaggi spaziali o da quanto ci piace diffamare le persone che si calano nelle grotte per salvare dei ragazzini intrappolati lì sotto).
Musk lavora come un pazzo perché vuole farlo. Possiamo discutere sui motivi psicologici di questa scelta: nasce dall’altruistico desiderio di aiutare il genere umano o è una forma patologica di stacanovismo dovuta al disperato bisogno di dimostrare quello che vale? Ma in un caso o nell’altro, in un certo senso, a lui piace. Mentre se noi provassimo a seguire gli stessi ritmi, dovremmo obbligarci a farlo. Lo stesso discorso vale per consigli meno categorici: “Scrivi ogni giorno” non funziona se non abbiamo voglia di scrivere. E nessun programma di attività fisica durerà a lungo se non ci piace almeno un po’ quello che stiamo facendo.
La conferma l’ho trovata leggendo la storia del prolifico sociologo tedesco Niklas Luhmann, in un affascinante libro di Sönke Ahrens intitolato How to take smart notes (basato sul complicato sistema di catalogazione che Luhmann usava per organizzare le sue conoscenze). Come ha fatto Luhmann a pubblicare 58 libri e centinaia di articoli, senza contare diversi altri volumi pubblicati dopo la sua morte, avvenuta nel 1998, a partire dai manoscritti che aveva lasciato? Ci è riuscito perché, come diceva lui stesso: “Non mi costringo mai a fare qualcosa che non mi piace. Ogni volta che mi blocco, mi metto a fare qualcos’altro”.
Detto così può sembrare che fosse scandalosamente indulgente con se stesso, ma in realtà, scrive Ahrens, “è più sensato pensare che abbia prodotto tutta quell’enorme mole di lavoro proprio perché non si costringeva mai a fare ciò che non gli andava, e non per il motivo opposto”.
Il piacere di fare qualcosa è sempre una motivazione più forte delle tecniche di produttività
Ho sperimentato diverse tecniche di gestione del tempo, ma visti i risultati che ho ottenuto non posso che essere d’accordo con lui: il modo migliore per prevedere se qualcosa sarà fatto è sapere se è piacevole. Il segreto della produttività è semplicissimo: basta fare quello che ci piace.
Avete qualche obiezione in proposito? Me lo aspettavo. La più comune è la paura che se ci consentissimo di fare solo quello che ci piace, sprecheremmo (ancora più) ore al giorno sui social network, o mangiando Nutella dal barattolo, invece di dedicarci a cose più importanti. Ma questo è vero fino a un certo punto: quando stiamo per cominciare un lavoro impegnativo, spesso abbiamo bisogno di darci una spintarella ricordandoci che non è necessario “averne voglia” per farlo.
Ma comunque, il piacere di fare qualcosa è sempre una motivazione più forte delle tecniche di produttività. Anzi, a volte queste possono peggiorare le cose: se ci diciamo che, succeda quel che succeda, dobbiamo dedicare almeno quattro ore al giorno a un certo progetto, rischiamo di trasformare un’attività che ci piaceva molto in qualcosa di insopportabile.
L’altra grande obiezione è che molte persone non hanno il privilegio di fare un lavoro piacevole e gratificante, quindi non possono organizzare la loro giornata in base a quello che li fa stare bene. Questo è vero. Ma non è colpa dell’approccio alla produttività basato sul piacere di Luhmann. È colpa della società, in altre parole, è un tipo di problema che nessuna tecnica di produttività potrà mai risolvere.
Consigli di lettura
Nel suo libro No sweat, la psicologa comportamentista Michelle Segar promuove una filosofia dell’esercizio fisico basata sul piacere, sostenendo che un obiettivo come “rimanere in buona salute” è troppo astratto per funzionare, le buone abitudini che riusciamo a mantenere sono quelle che troviamo divertenti.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo sul quotidiano britannico The Guardian.
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