“Che cosa la porta qui?”, è la classica domanda con la quale tutti gli psicoterapeuti cominciano in genere la prima seduta con un paziente (o almeno così facevano, fino a quando tutte le sedute si sono spostate su Zoom). Ma negli anni settanta, uno psicoterapeuta di Milwaukee, Steve de Shazer, provò a sperimentare un altro approccio. Invece di fare la domanda standard – che invita i pazienti a entrare nei dettagli dei loro problemi – cominciò a chiedere come sarebbe stato secondo loro non avere problemi. Nel corso del tempo, una versione di questo quesito è diventata la Domanda miracolosa, espressa in questi termini: “Immagini che una notte, mentre dorme, succeda un miracolo, e il suo problema sia risolto. Come farebbe a saperlo? Che cosa ci sarebbe di diverso?”.

A essere sincero, questo tipo di cose mi manda in bestia. Puzza di pensiero magico e di visualizzazione positiva, e in qualche modo ti catapulta fuori dalle reali circostanze della tua vita (compreso il gradino che occupi sulla scala economica) in un regno di pura beatitudine.

Ma non era quello che succedeva. Nella maggior parte dei casi, i pazienti di Shazer tiravano fuori visioni straordinariamente banali. Nel suo mondo miracoloso immaginario, una paziente si svegliava e si accorgeva che si stava pregustando la giornata piuttosto che esserne terrorizzata. Un’altra scopriva che quando parlava con i figli, loro le rispondevano; un’altra ancora che riusciva a tener testa a chi la angariava al lavoro.

I segni del cambiamento
Forse uno dei motivi di questo era che il cambiamento di prospettiva puntava sui segni del cambiamento, piuttosto che sul modo di cambiare, che ti sposta da un punto di vista in prima persona a uno in terza persona, dal quale spesso è più facile individuare le iniziative pratiche che si potrebbero prendere.

Noi esseri umani siamo così imperfetti che neanche i nostri problemi sono perfetti

La cosa ancora più affascinante è che Shazer e sua moglie Insoo Kim Berg, con la quale avrebbe poi creato la “Terapia breve focalizzata sulla soluzione”, si erano resi conto non solo che i loro pazienti sapevano quale sarebbe stata la soluzione, ma che la cosa giusta stava già succedendo, anche se occasionalmente.

Un genitore che aveva la sensazione di non farcela più, palesemente ogni tanto ce la faceva. La coppia che litigava tutto il tempo ricordava una sera passata piacevolmente insieme tre mesi prima. L’agorafobica che non usciva mai di casa se non per andare a comprare il latte: dopotutto riusciva ad andare a comprare il latte.

Anche quando una grave depressione faceva sentire al paziente che la vita era priva di qualsiasi gioia, gli tornavano alla mente momenti di gioia (come amava dire il maestro buddista Chögyam Trungpa: “Tutti amano qualcosa, anche se solo le tortillas”). O per citare un’équipe di psicoterapeuti della cura breve basata sulla soluzione, noi esseri umani siamo così imperfetti che “neanche i nostri problemi sono perfetti. Per quanto cronici, gravi, debilitanti o complessi siano, ci sono sempre le volte in cui sono meno debilitanti”. In altre parole, sappiamo quello che dobbiamo fare perché lo stiamo già facendo. E allora continuiamo a farlo!

È una riflessione particolarmente utile in tempi come questi, visto che chi legge la mia rubrica probabilmente ha qualche problema più del solito e si sente completamente in balìa di enormi forze economiche o naturali che non è in grado di affrontare soltanto con le sue risorse interiori. Ho il sospetto che le persone di sinistra come me siano più inclini a provare questa sensazione, mentre si scagliano contro chi dice che la panacea è rimboccarsi le maniche e assumersi le proprie responsabilità. Non è così. Ma la Domanda miracolosa ci ricorda che ci sono comunque cose che possiamo fare per migliorare la nostra vita. Anzi, quasi sicuramente le stiamo già facendo.

Consigli di lettura
La psicoterapeuta Linda Metcalf spiega come scoprire le strategie per risolvere i problemi che conosciamo già, ma non sappiamo di conoscere, nel suo libro The miracle question.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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