Se Matteo Renzi, il nuovo segretario generale del Partito democratico (Pd) fosse francese, si potrebbe paragonare a François Bayrou, al quale lo accomunano la sua reputazione centrista e il suo attaccamento ai valori del cattolicesimo sociale. Si potrebbero trovare anche degli elementi in comune con la Ségolène Royal del 2007 che, basandosi sui sondaggi che la davano favorita nei confronti della destra, si era fatta nominare candidata del Partito socialista alle elezioni presidenziali, nonostante le critiche di molti dirigenti del suo partito.
Ma in fin dei conti è a un certo Nicolas Sarkozy - quello del periodo 2004-2007 - che Renzi somiglia di più, quanto meno per la sua strategia. Non solo perché anche lui pensa alla presidenza del consiglio “tutte le mattine facendosi la barba”, ma anche perché, come Sarkozy nei confronti di Jacques Chirac, Renzi vuole incarnare la rottura con il governo di coalizione di Enrico Letta, a sua volta membro del Pd, e che potrebbe essere suo rivale in caso di nuove elezioni. A suo modo Renzi è vicino a Sarkozy che nel luglio del 2005 aveva rimproverato a Chirac - facendo allusione a Luigi XVI - di “smontare le serrature di Versailles”, mentre il popolo protesta.
Come il Sarkozy energico, iconoclasta e apertamente ambizioso di quel periodo, Renzi ha bisogno di dimostrare che il suo volontarismo è in grado di influenzare le scelte del governo e il calendario delle riforme e che senza di lui tutto andrebbe peggio. E ci sta riuscendo, quanto meno per quanto riguarda la riforma del modo di scrutinio, la cui approvazione definitiva in parlamento è attesa per marzo.
Questi nemici interni - e non mancano di certo, cioè tutti quelli che ha battuto e bistrattato - gli hanno teso una trappola: “Ehi Matteo! Smettila di criticarci tutti i santi giorni. Se sei così bravo e così indispensabile, perché non vieni a darci una mano al governo come ministro o, ancora meglio, a prendere il posto di Letta?”. La loro speranza segreta (neanche poi tanto) è che l’astro nascente della sinistra debba fare i conti con le difficoltà che caratterizzano qualunque esecutivo in tempo di crisi, così da non presentarsi a nuove elezioni libero da qualunque bilancio o responsabilità.
Tutto questo non vi ricorda nulla? Facciamo un piccolo passo indietro. Nel 2005, dopo la sconfitta del sì al referendum sulla costituzione europea, Sarkozy, trionfalmente eletto l’anno prima a capo dell’Ump, si era visto proporre il ministero dell’interno dal nuovo primo ministro Dominique de Villepin. Ma Sarkozy esita. E se fosse una trappola? Deve forse rovinare la sua immagine di riformatore, di stimolo, di alternativa tornando a mettersi sotto la tutela di Chirac? Non sarebbe meglio chiamarsi fuori da questo fallimento annunciato? Ma in questo caso i militanti gli perdonerebbero il fatto di essersi fatto da parte? Alla fine Sarkozy aveva accettato di tornare al governo.
Fatte le debite proporzioni e tenendo conto delle particolarità delle istituzioni italiane, Renzi si trova nella stessa situazione. Se ha bisogno di un consiglio, può sempre fare una telefonata a Parigi, al 77 di rue de Miromesnil, dove l’ex presidente della repubblica - che sogna di ridiventarlo - ha i suoi uffici. Il numero è a sua disposizione.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it