Dopo aver avanzato a tappe forzate sulla riforma del sistema elettorale, conclusa con un voto favorevole alla camera dei deputati, Matteo Renzi è passato lunedì 31 marzo a un’altra parte del suo “cambiamento radicale e immediato” per l’Italia: l’abolizione del senato.
Il progetto di legge costituzionale che il governo presenterà al parlamento mette fine al bicameralismo perfetto. Al posto dei 315 senatori eletti, palazzo Madama, trasformato in un’Assemblea delle autonomie, avrà meno della metà dei membri e sarà composto da 127 sindaci di grandi città, dai presidenti delle regioni e da 21 membri nominati dalla presidenza della repubblica. Questi nuovi senatori non saranno pagati, ricevendo già uno stipendio per i loro precedenti incarichi, non voteranno la fiducia né le leggi finanziarie e non saranno eletti per questo mandato.
Almeno questo sulla carta.
Il metodo Renzi rimane lo stesso, velocità di decisione e di esecuzione. Ma questo progetto di riforma costituzionale, che va di pari passo con la soppressione delle province, sarà molto più lungo da mettere in pratica (due letture in ogni camera) e incontra maggiore resistenza. “È un rischio per la democrazia”, ha affermato con una velata minaccia il presidente del senato, che sottolinea come su questo testo “il presidente del consiglio non avrà la maggioranza”. Inoltre Pietro Grasso, conoscendo bene i suoi colleghi, dubita che accetteranno di buon grado il loro sacrificio e la fine dei loro generosi stipendi. È come se i tacchini si rallegrassero di festeggiare il Natale.
Il presidente della camera ha chiesto “maggiore discussione”. Un ministro, membro del partito di Mario Monti, parla di una “decisione affrettata”. Una parte del Partito democratico (Pd) non sembra affatto contenta. A sua volta il partito di Berlusconi, Forza Italia, con il quale è stata decisa la scomparsa del senato, preferirebbe prima di andare più lontano l’approvazione definitiva della riforma elettorale.
**”Svolta autoritaria”. **Infine il Movimento 5 stelle, che ha messo al primo posto delle sue rivendicazioni l’eliminazione della casta, denuncia una “tendenza autoritaria” del presidente del consiglio e si unisce al coro delle proteste dei giuristi e dei costituzionalisti preoccupati di preservare l’equilibrio dei poteri voluto dai padri fondatori della costituzione del 1947, che avevano dovuto fare i conti con vent’anni di fascismo.
Fedele al suo modo di fare, Renzi mette avanti la volontà degli italiani di cambiare sistema, espressa in particolare con i voti ricevuti dal partito di Beppe Grillo. “Mettiamo fine a un dibattito trentennale”, spiega in un’intervista apparsa il 31 marzo sul Corriere della Sera. “L’elezione diretta del senato è stata scartata dal Pd con le primarie, dalla maggioranza e da Berlusconi nell’accordo del Nazareno. Quel che dev’essere chiaro è che su questo punto mi gioco tutto”. In un’altra intervista televisiva fatta lo stesso giorno, Renzi è andato ancora più lontano: “Non sono qui per fare le riforme a metà e non sono innamorato dei palazzi del potere. Se la classe politica pensa che non si debba cambiare nulla, allora lo farà senza di me”.
L’arma delle dimissioni in caso di fallimento è già stata utilizzata ed è preziosa. Renzi sa che dopo di lui nessun leader potrebbe imporsi al suo posto, né a destra né a sinistra. Quest’arma gli permette anche di mostrare dei risultati prima delle elezioni europee di maggio, che saranno il suo primo battesimo del fuoco elettorale.
Forte del 60 per cento di consensi, Renzi vuole credere che la generosa curiosità degli italiani nei suoi confronti lo proteggerà dalla tentazione dell’immobilismo della classe politica. Secondo un sondaggio dell’istituto Demos, il 65 per cento degli italiani pensa che i princìpi fondatori della costituzione debbano essere rispettati, ma anche che quest’ultima possa essere riformata. Questa è la vera maggioranza di Renzi.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it