Fondata nel febbraio 1924 da Antonio Gramsci, uno dei padri del Partito comunista italiano, l’Unità potrebbe essere costretta a chiudere entro fine luglio se non troverà un “acquirente serio e credibile” disposto a ripianare i debiti e a rilanciare la testata.

Anche a novant’anni, la morte di un giornale è sempre una notizia triste. Martedì 8 luglio la redazione ha aperto le porte, ha lanciato un appello ai due “Mattei” (il presidente del consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi e l’editore Matteo Fago) e ha criticato le “scellerate” scelte strategiche, come la decisione di non distribuire più il quotidiano in Sicilia, in Sardegna e in Calabria, o di chiudere le redazioni locali di Bologna e Firenze.

La redazione ha rivendicato la lunga storia del quotidiano e la volontà di andare avanti. Per due mesi gli articoli dell’Unità sono usciti senza firma e per cinque giorni il giornale non è uscito nelle edicole. L’Unità, che vende circa 25mila copie al giorno, impiega cinquanta giornalisti e quindici poligrafici che non ricevono lo stipendio da aprile.

Non è la prima volta che il giornale organico della sinistra italiana (dal Pci al Partito democratico, che detiene ancora una quota simbolica del suo capitale) è minacciato. Senza risalire al periodo fascista, quando fu messa fuori legge, la testata era scomparsa nel 2000 ed era tornata in edicola solo l’anno successivo grazie all’intervento di un gruppo di investitori chiamato Nuova iniziativa editoriale, suo attuale proprietario.

Nel 2006 l’intervento del fondatore di Tiscali Renato Soru sembrava la garanzia di un futuro migliore. Si trattava di un imprenditore ricco e ambizioso, presidente della regione Sardegna, che si vedeva come un’alternativa a Silvio Berlusconi. Ma nel 2009 la sconfitta elettorale nel suo feudo lo ha costretto a rivedere le sue ambizioni, e quindi anche il suo interesse per il giornale.

Il Partito democratico e Matteo Renzi ascolteranno la richiesta di aiuto? È poco probabile. Il presidente del consiglio infatti non ha bisogno dell’Unità per fare propaganda. Twitta dalla mattina alla sera e quando vuole può andare in televisione, uno strumento molto più efficace per diffondere il suo messaggio. Se Renzi vuole chiamare “festa dell’Unità” le manifestazioni estive organizzate dal Pd, è più per approfittare di un marchio storico che per rilanciare la testata.

Del resto il quotidiano è sempre stato vicino all’ala ortodossa del Pd, agli ex comunisti come Pier Luigi Bersani, che aveva sostenuto nella campagna delle primarie del 2012 contro l’allora sindaco di Firenze. Inoltre i finanziamenti pubblici ai giornali, di cui l’Unità approfittava, sono sempre più malvisti dai cittadini, che dubitano della sincerità dei media tradizionali.

La militanza politica è in crisi ovunque. Gli elettori italiani non sono più attaccati a un partito o a una corrente di pensiero – e ancora meno a un giornale. Alle elezioni politiche del 2013 più del quaranta per cento dei votanti ha cambiato idea rispetto a quelle del 2008. Altri quotidiani, come La Repubblica (400mila copie) o più di recente Il Fatto Quotidiano (centomila copie), vicino al Movimento 5 stelle, hanno saputo cogliere meglio i volatili umori di questa sinistra in continua evoluzione. Per non parlare poi dei loro siti internet, sempre più seguiti.

In queste condizioni politiche, sociali, economiche ed editoriali, la sopravvivenza dell’Unità sul medio periodo sembra decisamente compromessa. I giornalisti si dicono soddisfatti della buona accoglienza riservata a giugno al numero speciale che ricordava la morte dell’ex segretario del Pci Enrico Berlinguer. Accadeva trent’anni fa, quando l’Unità aveva una tiratura di quasi duecentomila copie.

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