1. Pink Floyd, Money (Roger Waters demo)

In principio, era un semplice blues che in quattro accordi meditava sui soldi, con una retorica da liceali svegli, ai tempi in cui “commerciale” era peggio del colera, l’insulto definitivo. Certo è ironico che questa demo piuttosto rudimentale (anche se già con rumorini di soldini e registratore di cassa in coda) dell’antimonetarismo watersiano finisca tra i pezzi forti dell’ennesima operazione di sfruttamento economico di The dark side of the moon, in una Immersion edition che vale anche come case history di business administration.

2. Pink Floyd, Money (early mix 1972)

Ascoltare bene: il loop dei registratori di cassa non è ancora quello definitivo; il giro di chitarra pesa troppo sul mix; il piano elettrico è troppo sfumato sullo sfondo, ci sono meno effetti in coda… La versione di questo premissaggio è quasi identica a quella definitiva, ma per apprezzare il livello di feticismo sonoro bisogna essere davvero o impallinati di Pink Floyd dei tempi d’oro, o seguaci assoluti di Alan Parsons, che prima di correre dietro ai suoi Project qui era l’ingegnere del suono. Scontato, poi, che si conosca a memoria ogni singolo accordo.

3. The Drums, Money

Come un early mix dall’album inedito in cui gli Smiths stavano in spiaggia a fare il verso ai Beach Boys, questo è quel punto di tristezza anglosassone in cui si soffre perché si è troppo squattrinati per fare un regalo, troppo di Brook­lyn per essere inglesi, troppo machu per essere picchu, troppo baciati dal successo per non sfiorare l’autodistruzione. I Drums incarnano un po’ tutte queste cose in un comodo rotolone convenienza. Che lo sfruttamento commerciale abbia inizio! Ah no, è già in corso, let’s go surfing.

Internazionale, numero 918, 7 ottobre 2011

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