1. Arnaldo Antunes, Edgard Scandurra, Toumani Diabaté, A curva da cintura

I primi due, rispettivamente uno dei tre Tribalistas e un grande della chitarra, sono brasiliani; il terzo, dal Mali, è il virtuoso della kora, lo strumento a corde dei poeti. S’incontrano in un territorio aereo di sublimi armonie vocali, nuvolette di beatitudine acustica, alisei di tradizioni che s’incrociano. È una musica che muta il vento, e tutto l’album A curva da cintura è una cosa per chiudere le saracinesche del baccano e mandare le orecchie in vacanza nello spazio sopra l’Atlantico.

2. Gallon Drunk, Stuck in my head

Blues da cineforum dell’orrore per un album il cui titolo, The road gets darker from here, sa già di strade tormentate da demoni. Band nata da una costola rosicchiata dagli avvoltoi di Nick Cave and the Bad Seeds: il cantante e polistrumentista James Johnston (organetti svitati elettrici, armonica cadaverica, piano scordato in cantina), insieme a Terry Edwards (sax, compagno di allucinazioni di Tom Waits e Julian Cope) e al batterista Ian White, coltiva un rock’n’roll maledetto come un giardino vittoriano tetro anche d’agosto.

3. Lady Ubuntu, La stagione delle albicocche

È come un muesli elettronico di Linux MultiMedia Studio, incazzature astratte, albicocche slam poetry e nervi punk di provincia. Sono tre di Alessandria (tutti intorno ai 35) e infilano invettive a partire dal titolo dell’album, Piuttosto che incontrarvi farei bungee jumping. Costeggiano l’inascoltabilità con accattivante aplomb; ogni tanto suonano come un incrocio tra Giovanni Lindo Ferretti e Beppe Grillo, ogni tanto come cuccioli che scodinzolano per essere mollati ai margini della città anziché rendersi complici dell’esodo estivo.

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