1. Naomi Berrill, Feelin’ groovy
Una violoncellista irlandese a Firenze, che magari ogni tanto porta la sua custodia su per i giardini di Boboli e poi rifà quella canzone dei Simon & Garfunkel sgarrupati nel sole freddo di Central park, quel sound della spensieratezza che non esiste più in natura, perché questa cosa di stare sereni ormai è solo una provocazione sardonica, in genere con l’hashtag davanti. Almeno la violoncellista (che debutta con un album che la vede spaziare da Schumann a Pete Seeger) la sa evocare, per un attimo, con la sua rilettura luminosa e con parquet in legno chiaro.

2. Andrea Gianessi, Indifferente al tempo
L’ultimo romantico è un ragazzo con la barba che viaggia solo nello scompartimento di un treno e legge, poi alza lo sguardo verso le colline e pare credere che tutto sia possibile. L’alternativa è un album con cui questo cantautore/sound designer bolognese, dopo il Dams e pellegrinaggi tra band e world music, sembra mettersi in viaggio verso la sua voce. Gli arrangiamenti sono miniature di archi e di filigrane elettroniche, con qualche richiamo a certi momenti di gloria del pop italico anni sessanta; ma l’introspezione è in 3d, e questa vita è di adesso.

3. Alice Ricciardi, Anyone lived in a pretty how town
È complicato appoggiare un canto jazz alla voce del poeta E.E. Cummings che declama il suo componimento, l’illusione sintattica di un idillio paesano attraversato da una sottile ma radicale sovversione di significati, in sospeso tra ragione ed emozione. Musica del nuovo album Optics, che la cantante ha inciso per l’etichetta americana Inner Circle Music, ricettacolo di jazzisti d’élite. Una via poetica e introspettiva attraverso un pantheon da cui affiorano le anime di Thelonious Monk ed Emily Dickinson, spiriti inquieti, tonalità felpate.

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2014 a pagina 14 di Internazionale, con il titolo “Sereno inquietabile”. Compra questo numero | Abbonati

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