Il regista Joshua Oppenheimer a Venezia, il 28 agosto 2014. (Tony Gentile, Reuters/Contrasto)
In giro sento molte persone entusiaste del film di Iñárritu. Eppure la critica in generale mi pare che l’abbia accolto tiepidamente. Divertente, ok, ma niente entusiasmo.
Come non è entusiasmante, per altri motivi, The look of silence del texano Joshua Oppenheimer. Il seguito ideale del documentario del 2012 The act of killing racconta ancora il massacro dei comunisti indonesiani avvenuto nel 1965. Tornano anche gli allegri carnefici del primo film. Ma stavolta il punto di vista è quello di un ottico a domicilio che lavora in un’area in cui ancora vivono e prosperano le persone (o le loro famiglie) che hanno macellato suo fratello.
Accompagnato da Oppenheimer, che già le conosce bene, l’ottico le incontra. Ad alcuni prescrive gli occhiali e poi affronta con loro l’argomento dei massacri del ‘65. Senza spirito di vendetta, solo per sondare la loro percezione di quegli avvenimenti, per poter andare avanti. Non è un film di denuncia su avvenimenti accaduti tanto tempo fa. È un film che arriva dove raramente si arriva. Sonda la coscienza di un’intera comunità (e non solo), mette a nudo degli agghiaccianti meccanismi della natura umana e della società.
Visto che qualcuno l’ha chiesto in conferenza stampa: gli anonimi dei titoli di coda non sono texani imbarazzati perché i comunisti passano per vittime né tifosi dell’Inter. Sono indonesiani che devono continuare a vivere dove i responsabili di quelle stragi possono ancora far male.
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