Ogni settimana il giornalista francese Pierre Haski racconta un paese di cui non si è parlato sui mezzi d’informazione.

Il monumento a Nelson Mandela a Pretoria, Sudafrica, dicembre 2013. (J. Countess, Getty Images)

Se volete vedere un simbolo dei cambiamenti vissuti dal Sudafrica dopo la fine dell’apartheid nel 1994, basta sfogliare la rivista sudafricana Drum.

Drum è per il Sudafrica quello che la rivista Ebony ha rappresentato per l’America nera degli anni cinquanta e sessanta: l’affermazione di una classe media nera, che volta le spalle al miserabilismo dei “dannati della terra” e alle lotte di emancipazione, peraltro non ancora terminate. Ma Drum ha anche avuto un importante ruolo storico in questa evoluzione.

Scoprire per la prima volta questa rivista patinata e ricca di illustrazioni fa entrare nel mondo meraviglioso delle star dello spettacolo, delle “super mom” (super mamme) o dello “Spree”, il negozio online del sito della rivista.

Le rubriche di Drum riflettono i sogni e le aspirazioni di questa classe media nera che oggi si mostra con orgoglio nell’ex paese dell’apartheid, anche se gli ultimi avvenimenti dimostrano che le disuguaglianze sociali esistono ancora. È la pesante eredità di un sistema di discriminazione razziale che si è rivelato più difficile da superare di quello che era sembrato in primo momento, nell’entusiasmo delle elezioni che avevano portato Nelson Mandela al potere nel 1994.

Il mondo dell’apartheid era diviso in funzione della barriera razziale: se eri nero dovevi vivere nelle township come Soweto, indipendentemente dalla tua ricchezza. Se eri bianco, anche se povero, avevi un posto nei “quartieri eleganti”. Eppure nonostante l’apartheid esisteva una piccola borghesia nera.

Quando ero corrispondente dal Sudafrica, alla fine degli anni settanta, tutti conoscevano il milionario nero per eccellenza, Ephraim Tshabalala. Quest’uomo imponente possedeva la Tshabalala Motors, lo Tshabalala Bazaar, la prima lavanderia a secco, una macelleria, un ristorante, un cinema, decine di appartamenti in affitto e così via.

Ma all’epoca tutte le sue proprietà si trovavano a Soweto, l’immenso ghetto nero di Johannesburg, e anche lui era costretto a viverci, anche se la sua villa confortevole si distingueva dalle “matchboxes”, le scatole di fiammiferi tipiche degli abitanti di Soweto. In altre parole, il denaro non faceva la felicità se si aveva la sventura di essere neri nel periodo dell’apartheid.

A partire dal 1994 e dalla fine dell’apartheid gli uomini come Thabalala e la nuova élite nera hanno lasciato le township e si sono trasferiti nei quartieri chic che fino ad allora conoscevano solo in qualità di domestici e di giardinieri. Fino a Houghton, il quartieri più esclusivo di Johannesburg dove ogni casa ha la sua piscina e due o tre garage con le sue macchine di lusso.

Nella nazione arcobaleno, come il Sudafrica di Mandela amava definirsi, la barriera “razziale” ha ormai ceduto il posto al muro del denaro.

Pochi anni dopo la fine dell’apartheid sono andato a trovare un amico dei miei anni sudafricani, un ex militante nero che aveva passato più tempo in prigione che in libertà. Era diventato imprenditore e mi aveva invitato a casa sua, nella periferia residenziale di Johannesburg. Una Bmw parcheggiata in giardino, un prato tagliato con cura, una domestica nera che si occupava dei bambini sul bordo di una modesta piscina.

L’ho trovato sdraiato sul divano mentre guardava una partita di cricket, in passato lo sport bianco per eccellenza, con una birra in mano. Nel vedermi ha scherzato: “Chi avrebbe immaginato che un giorno avrei tifato per la squadra di cricket del Sudafrica in una bella villa, proprio mentre chiedevo il boicottaggio sportivo del mio paese”. Ed è scoppiato a ridere.

Drum si rivolge a questa nuova classe della popolazione, con le sue foto di moda, le sue pagine di ricette e la vita delle star come tutte le riviste di questo genere. E anche con le sue lettere dei lettori, con “Sis Dolly” (sorella Dolly) che risponde a lettere come: “È più vecchio di me”, “Chi è il padre? L’amante di mio marito rifiuta di fare un test di paternità” e così via.

Un piccolo miracolo. In tutto il mondo esistono riviste come Drum, ma questa rivista ha origini molto più serie. Drum è stata lanciata nel 1951 da un eccentrico milionario bianco, Jim Bailey, che aveva assunto come primo direttore un giornalista inglese che sarebbe diventato famoso, Anthony Sampson.

Impegnata contro l’affermazione delle leggi sull’apartheid, la rivista aveva assunto i migliori giornalisti neri e ha prodotto un gran numero di inchieste e di servizi che hanno fatto epoca.

In quel periodo Drum era un piccolo miracolo. Una rivista realizzata da una redazione multirazziale in un paese che stava costruendo i muri di separazione e di odio dell’apartheid in seguito alla vittoria del partito nazionale degli Afrikaner nel 1948. Un gruppo animato da un’energia positiva che solo la glaciazione dell’apartheid sarebbe stata in grado di far tacere un decennio più tardi.

Nello stesso momento Nelson Mandela e i suoi amici stavano radicalizzando l’African national congress dopo aver preso la testa della sua Lega giovanile. Questi uomini lanciavano delle campagne di disobbedienza civile e trovavano in Drum lo strumento in grado di dare pubblicità alle loro idee.

All’epoca Drum era la rivista di una classe media in pieno sviluppo ma frustrata dalle leggi razziali. Questa frustrazione aveva prodotto una formidabile energia creatrice, di cui la rivista era uno degli elementi di spicco.

Alcuni giornalisti di Drum, come Peter Abrahams, Can Themba e Ezekiel Mphahlele, figurano oggi nelle antologie della letteratura sudafricana. Sulla rivista hanno esordito fotografi come Eter Magubane, uno dei grandi nomi della storia del fotogiornalismo sudafricano.

Negli anni cinquanta sono emersi grandi scrittori e musicisti, molti dei quali hanno preso la strada dell’esilio all’inizio degli anni sessanta, in occasione dello scontro che avrebbe mandato Mandela a Robben Island per 26 anni.

Fra di loro Myriam Makeba, la cantante morta nel 2008 dopo una grande carriera internazionale, che ha avuto la fortuna di vedere il suo paese liberato dall’apartheid dopo aver vissuto 25 anni in esilio.

Per capire l’atmosfera di quell’epoca bisogna vedere la prima apparizione di Makeba nel 1959 in Come back, Africa, un film girato clandestinamente in Sudafrica dallo statunitense Lionel Rogosin. In quell’occasione si vede la giovanissima cantante in uno shebeen, uno dei bar clandestini di Soweto. È in questo universo che si è sviluppata Drum, una via di mezzo fra una rivista letteraria e impegnata e un rotocalco di costume.

Più di mezzo secolo dopo Drum ha completamente abbandonato il suo impegno politico. Jim Bailey non c’è più, così come Cat Themba, Peter Magubane e gli altri protagonisti di questa avventura giornalistica.

La normalizzazione ha colpito anche qui, ma chi potrà lamentarsi che il Sudafrica si sia sbarazzato dell’apartheid per diventare normale?

Sudafrica

• *Abitanti: *51 milioni

• *Capitale: *Pretoria

Pil pro capite:11.281 dollari (2012), 83° paese su 180 secondo il Fondo monetario internazionale.

Tre cose interessanti:

• Il Sudafrica ha almeno undici lingue ufficiali perché dalla fine dell’apartheid le principali lingue africane (xhosa, zulu, tswana e così via) si sono aggiunte alle due lingue “bianche”, l’inglese e l’afrikaans.

• Il Sudafrica è uno dei 17 paesi del mondo con la maggiore biodiversità.

• Nonostante l’esodo di oltre 900mila bianchi negli ultimi vent’anni, il Sudafrica ha ancora un’importante minoranza bianca che rappresenta quasi il 10 per cento della popolazione, in maggioranza composta da afrikaners, i discendenti dei coloni olandesi e degli ugonotti francesi, fuggiti dalle guerre di religione nel settecento.

(Questo articolo è uscito su Rue89. Traduzione di Andrea De Ritis)

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