Il 20 gennaio Donald Trump passerà dal mondo virtuale a quello reale. Da quando è stato eletto presidente l’8 novembre 2016, il futuro presidente della prima potenza mondiale diverte o spaventa il pianeta a colpi di tweet, che restano però privi di valore reale finché non assumerà l’incarico. Tra qualche giorno Trump e il resto del mondo entreranno in una nuova era.

Niente, nel comportamento imprevedibile del presidente eletto, e perfino nella serie di nomine per i posti chiave che devono ancora essere confermate dal senato, permette davvero di prevedere come si comporterà Trump quando si troverà di fronte alla sua prima crisi internazionale.

Il comandante in capo avrà a disposizione il più forte esercito del mondo, la più vasta rete d’alleanze e un’economia potente. Ma quali saranno le sue regole d’ingaggio e, soprattutto, come si comporterà durante il suo vero battesimo del fuoco? La risposta a queste domande non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche i suoi alleati, che ne subiranno le conseguenze o che addirittura saranno spinti a intervenire a causa del gioco delle alleanze.

Nonostante il suo relativo isolazionismo, non c’è dubbio che Donald Trump si troverà presto di fronte a crisi internazionali che coinvolgeranno, in maniera più o meno marcata, gli Stati Uniti, che si tratti di paesi che vorranno testare la nuova amministrazione o di decisioni prese da lui stesso.

Senza lanciarsi nella fantapolitica, si possono immaginare due teatri in cui Trump rischia di dover affrontare delle possibili crisi: l’Asia e il Medio Oriente.

Il test di Pyongyang
La Corea del Nord possiede tutti gli elementi per essere uno di questi test. Non solo perché, senza voler forzare i paragoni, esistono delle somiglianze tra Trump e il presidente nordcoreano Kim Jong-un, come un taglio di capelli inconfondibile, il profondo senso della messa in scena e il carattere altamente imprevedibile.

La minaccia di una crisi viene soprattutto dal fatto che la Corea del Nord ha appena annunciato che sta per testare un missile balistico intercontinentale capace di colpire il territorio statunitense con una testata nucleare. E Trump ha prontamente twittato che questo “non succederà”, lasciando intendere che lo impedirà con tutti i mezzi a sua disposizione, compresi quelli militari.

A quanti sarebbero tentati di pensare che sia solo un bluff di Kim bisogna ricordare che la Corea del Nord ha dimostrato le sue capacità nucleari con cinque test, confermati dai centri di sorveglianza internazionali, e che dispone verosimilmente di varie testate nucleari. Pyongyang ha anche dimostrato di aver fatto progressi nel campo dei missili a lunga gittata. E la dinastia Kim ha fondato la sua sopravvivenza sulla buona gestione dei propri strumenti militari (quantomeno) di dissuasione e di ricatto da parte di un regime sui generis e senza scrupoli.

Pyongyang resta una delle pedine della strategia asiatica di Pechino

Il “non succederà” di Trump è più facile a dirsi su Twitter che nella vita reale. Una soluzione militare è tecnicamente possibile – bombardare i centri di ricerca e i siti di lancio già identificati dalla Cia – tanto più che gli Stati Uniti dispongono di basi militari in paesi vicini come la Corea del Sud e il Giappone.

Ma questo significa dimenticare un elemento-chiave: la Cina che, pur detestando il regime nordcoreano, resta il suo paese protettore e padrino, per delle ragioni geostrategiche che diventano evidenti se si osserva la mappa dell’Asia. La Cina non vuole veder scomparire un regime che impedisce la riunificazione della Corea né vedere le truppe statunitensi alla sua frontiera nordorientale. Pyongyang resta una delle pedine della strategia asiatica di Pechino, che non permetterà agli Stati Uniti di distruggere il regime nordcoreano senza il suo improbabile accordo.

Resta quindi la via dei negoziati, ma anche qui Pechino, designata come capofila del gruppo di contatto sulla Corea del Nord di cui fanno parte gli Stati Uniti, non accetterà di essere ignorata o marginalizzata da un approccio diplomatico. E quindi Trump, in uno dei suoi tweet, se l’è presa con la Cina, che secondo lui ha ottenuto vantaggi economici senza concedere niente in materia di pressioni sulla Corea del Nord.

Se vuole veramente impedire a Pyongyang di dotarsi della capacità di colpire il territorio statunitense, e quindi di mettere Washington sotto una minaccia permanente, Trump dovrà ricucire i rapporti con Pechino in un modo o nell’altro. Cosa che per ora non sembra aver cominciato a fare.

La questione simbolica e politica di Gerusalemme
La città tre volte santa, venerata da cristiani, ebrei e musulmani, è una bomba a orologeria nella mani di Trump. Come tutti i suoi predecessori, il presidente eletto ha promesso di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalmenne, ma lui sembra deciso a farlo davvero. Ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, un sostenitore degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (gli stessi insediamenti condannati dal Consiglio di sicurezza dell’Onu con l’astensione dell’amministrazione Obama) nonché del trasferimento della capitale.

Sia John Kerry, segretario di stato di Barack Obama, sia i rappresentanti dell’Autorità palestinese e la monarchia hashemita della vicina Giordania, responsabile dei luoghi santi dell’islam a Gerusalemme, hanno avvertito Trump che il trasferimento dell’ambasciata rischierebbe di scatenare un’esplosione di violenza in una regione già incandescente. La recente uccisione di quattro soldati israeliani ha dato una tragica eco a questi avvertimenti.

La questione è allo stesso tempo simbolica e politica. Il piano di spartizione della Palestina britannica previsto dall’Onu nel 1948, che ha dato vita allo stato ebraico, prevedeva uno “status internazionale” per Gerusalemme. Il rifiuto arabo di questo piano e la guerra che ne è conseguita hanno deciso altrimenti: Israele ha fatto di Gerusalemme ovest la sua capitale nel 1949 e ha poi “riunificato” la città strappando la parte orientale alla Giordania nel 1967. Capitale “eterna” per Israele, secondo il diritto internazionale Gerusalemme resta un “territorio occupato” nella sua parte orientale, come è stato appena riaffermato dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza.

Finora nessun paese importante aveva osato rompere lo status quo, e le ambasciate erano mantenute scrupolosamente a Tel Aviv, mentre i consolati di Gerusalemme si occupavano perlopiù della parte palestinese.

Annunciando la sua intenzione di rompere questo status quo, Trump si assume il rischio di far divampare un incendio che non potrà controllare. I palestinesi non accetteranno passivamente una decisione che è certamente perlopiù simbolica, ma che legittimerebbe la presenza israeliana nei territori occupati.

Anche l’avvertimento della Giordania è carico di significato. Gli accordi israelo-palestinesi di Oslo del 1993, in teoria provvisori, avevano affidato alla Giordania e alla sua monarchia, che rivendica la sua discendenza da Maometto, la gestione dei luoghi santi dell’islam a Gerusalemme attraverso il waqf, l’amministrazione religiosa. Neppure Amman, che ha firmato un accordo di pace con Israele ed è alleata degli Stati Uniti anche nella lotta al gruppo Stato islamico (Is), assisterà passivamente a quella che agli occhi del mondo arabo-musulmano apparirà come una “provocazione”.

Trump seguirà la strada dei suoi predecessori, compresi i più convinti alleati d’Israele, che hanno ritenuto più saggio non assumersi questo rischio? O rimarrà fermo sulle sue posizioni, convinto di seguire solo la propria volontà? Sarà un vero test sul suo modo di governare.

Le preoccupazioni di Pechino
Pechino è chiaramente nel mirino di Donald Trump, a giudicare dal numero di tweet ostili dedicati al paese, unico indicatore diplomatico affidabile, a oggi, degli umori del presidente eletto.

Le accuse rivolte alla Cina sono numerose, ma possono essere riassunte in quella generale di aver approfittato dell’ultima fase della globalizzazione economica ai danni degli Stati Uniti. È stato uno degli argomenti principali della campagna elettorale statunitense. Con circa cinquecento miliardi di dollari di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti, e una bilancia commerciale solidamente in attivo, la Cina è uno dei bersagli preferiti di un presidente dagli istinti protezionisti.

La Cina si preoccupa già oggi per alcune nomine all’interno della futura amministrazione. Per esempio per quella di Peter Navarro, un professore d’economia autore di vari libri incendiari contro la Cina, come presidente del neonato consiglio nazionale per il commercio della Casa Bianca. Oppure per quella di Robert Lightizer, ex membro dell’amministrazione Reagan e a sua volta molto critico nei confronti di Pechino, nel ruolo di rappresentante al commercio degli Stati Uniti, il braccio armato del governo per i negoziati commerciali.

Di fronte alla minaccia di una tassa sull’importazione di prodotti cinesi – a luglio Navarro parlava di un’imposta del 45 per cento – la Cina alza i toni: “Ci sono aiuole fiorite intorno al ministero del commercio a Pechino, ma anche grossi bastoni dietro la porta. Entrambe le cose attendono gli statunitensi”, ha scritto recentemente il quotidiano ufficiale China Daily.

Data la sua ostilità nei confronti di Teheran, Trump potrebbe suo malgrado aiutare i radicali iraniani a sbarazzarsi del riformatore Rohani

Pechino vuole trasformare le aziende statunitensi, che hanno investito decine di miliardi di dollari in Cina da due decenni e non hanno alcuna voglia di veder scoppiare una guerra commerciale, in alleati capaci di trasmettere il messaggio all’amministrazione Trump. La loro situazione, diventata già piuttosto difficile negli ultimi anni, potrebbe diventare critica in caso di un aumento delle tensioni tra le due principali economie mondiali.

Ma non è detto che le cose vadano per forza male. Se esiste una questione in cui dovrebbe prevalere il presunto “pragmatismo” di Trump, che in campagna elettorale si è definito un dealmaker, dovrebbe essere proprio quella degli scambi con la Cina. Il che non impedisce che i rapporti commerciali sinoamericani potrebbero essere sottoposti a revisione.

Le possibili chiusure dell’Iran
Ultimo potenziale argomento scottante di questa prima lista, l’Iran è notoriamente tra i bersagli preferiti di Trump, che non ha mai smesso di denunciare l’accordo nucleare firmato con Teheran e che si è circondato di militari noti per la loro ostilità nei confronti della Repubblica islamica.

Che farà Trump se i guardiani della rivoluzione, l’ala radicale del regime dei mullah, decideranno di metterlo alla prova? Va ricordato che proprio un anno fa i guardiani della rivoluzione avevano catturato due imbarcazioni statunitensi che si erano spinte nelle acque territoriali iraniane. L’equipaggio era stato filmato e umiliato prima di essere liberato a conclusione di alcune discrete trattative condotte dai partner dell’accordo nucleare, John Kerry e il suo omologo iraniano Javad Zarif.

Recentemente una nave statunitense ha sparato un colpo d’avvertimento contro quattro motovedette iraniane che si erano avvicinate troppo, un tipo d’incidente sempre più comune e che rischia di divenire ancor più frequente dopo il 20 gennaio.
L’ala più estrema del regime iraniano vuole che il grande Satana americano resti il collante della rivoluzione islamica, e vorrebbe che le elezioni presidenziali del prossimo maggio si chiudessero con la sconfitta del presidente riformatore Hassan Rohani, autore di un’apertura verso l’occidente.

Vista la sua ostilità viscerale nei confronti di Teheran, Trump potrebbe suo malgrado aiutare i radicali iraniani nel loro tentativo di sconfiggere un presidente che ha “venduto” all’opinione pubblica la distensione dei rapporti con il resto del mondo. Poco importa a Trump che il complesso sistema iraniano preveda che il governo abbia poca presa sulla politica estera del paese, in particolare in Siria e in Iraq, e che sia impegnato in una lotta feroce con le forze di sicurezza.

La Russia fuori della lista
Ci aspetta un periodo complesso fino alle elezioni presidenziali iraniane, che decideranno il futuro dei rapporti tra Teheran e i paesi occidentali. Gli europei cercano di giocare la carta della distensione, come dimostra la prima consegna di un aereo Airbus alla compagnia di bandiera dell’Iran, uno dei rari frutti concreti dell’accordo nucleare agli occhi degli iraniani.

C’è un paese che non appare in questa lista. Si tratta della Russia di Vladimir Putin, che pure si trova al cuore di molte crisi internazionali odierne, dall’Europa orientale al Medio Oriente. Anche qui nessuno sa bene cosa aspettarsi, ma l’atteggiamento del presidente eletto in queste ultime settimana fa pensare che non sarà con la Russia che scoppierà la prima crisi. Tutt’altro.

In attesa del 20 gennaio, Trump può godersi i suoi ultimi tweet da presidente eletto: la diplomazia virtuale non presenta troppi rischi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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