C’è ancora qualcuno che nel 2017 voglia difendere i diritti umani? La domanda può sembrare incongrua perché in quest’epoca dovremmo forse chiederci se c’è ancora qualcuno contrario alla loro difesa.

Eppure, la morte del dissidente e premio Nobel per la pace cinese Liu Xiaobo, per un cancro diagnosticato mentre scontava la sua pena in una prigione cinese, ha provocato in tutto il mondo un senso di colpa accompagnato da frasi come “non abbiamo fatto niente per difenderlo”.

La sorte di Liu Xiaobo, un intellettuale non violento, condannato dal regime cinese a una pena dura per aver scritto un manifesto in favore della democrazia nel suo paese, è in effetti il segno della sparizione, non annunciata, della diplomazia dei diritti umani.

La discesa agli inferi
Negli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino e la presunta fine della storia, i diritti umani sono stati sostenuti quasi come se fossero un’ideologia, con grandi eventi a essi dedicati e organizzati dalle Nazioni Unite. Mi ricordo di una grande conferenza sui diritti umani a Vienna, con oltre diecimila partecipanti venuti da tutto il mondo, che annunciava l’avvento di un’era più virtuosa, nella quale i valori universali sarebbero prevalsi sul relativismo culturale.

Cos’è cambiato? Sono stati gli attentati dell’11 settembre 2001 a segnare quella che a volte viene definita “la fine dell’innocenza”? Resta il fatto che a questi attentati ha fatto seguito una “guerra al terrorismo”, portata avanti dall’amministrazione Bush, che ha provocato un grave arretramento nel rispetto dei diritti.

L’espressione ‘lotta per i diritti umani’ è diventata peggiorativa, quasi degna di disprezzo

Oppure sono state le derive neoconservatrici dell’“ingerenza umanitaria”? Inizialmente questa posizione era stata sostenuta da Bernard Kouchner, fondatore di Médecins du monde ed ex ministro nel governo di Nicolas Sarkozy, per abbattere le frontiere che impedivano di agire nei paesi dove venivano commesse le violazioni dei diritti umani. Queste derive sono arrivate al culmine con l’intervento militare in Libia del 2011, la morte di Gheddafi e la discesa agli inferi di questo paese cerniera del Nordafrica.

Resta il fatto che “lotta per i diritti umani” è diventata un’espressione peggiorativa, quasi degna di disprezzo, pronunciata dai responsabili politici o dai diplomatici occidentali, rispetto a un realismo che si vorrebbe più efficace e più pragmatico.

Alcuni degli argomenti di chi si oppone a questa lotta sono leciti. Il “messianismo” democratico di cui ha voluto dare prova l’occidente dopo la fine della guerra fredda si è rivelato inefficace (anche se il numero di paesi dove si svolgono elezioni pluraliste e che rispettano la libertà di stampa è inizialmente cresciuto) e al contempo anche controproducente. Il ritorno degli “uomini forti” alla Vladimir Putin o alla Recep Tayyip Erdoğan ne è la prova.

Questa impasse ha come corollario i cambiamenti del mondo, con l’emergere di varie grandi potenze “del sud”, a cominciare dalla Cina rimasta ufficialmente comunista, che non sono disposte a farsi dare lezioni dagli ex dominatori “del nord”, a loro volta lungi dall’essere virtuosi ed esemplari.

Fallimenti e umiliazioni
Il risultato è che i diritti umani sono quasi scomparsi dall’agenda diplomatica internazionale, con il pretesto del ricorso a una discrezione che dovrebbe essere più efficace.

Il giornalista dissidente cinese Chang Ping, oggi esiliato in Germania, ha denunciato la diplomazia discreta da tempo praticata dai paesi occidentali per giustificare il loro silenzio sulle sorti del premio Nobel incarcerato. “Questo approccio non ha prodotto altro che fallimenti e l’umiliazione di coloro che pretendeva di salvare”, ha scritto.

Il mese scorso dieci organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani hanno invitato l’Unione europea a sospendere il suo dialogo sui diritti umani con la Cina, finché questi incontri annuali non saranno davvero in grado di migliorare la situazione del paese asiatico. Uno studio mostra effettivamente che questo dialogo, avviato nel 1995, ha avuto un impatto limitato.

Fatto ancora peggiore, l’influenza economica della Cina ha degli effetti diretti sulla capacità dell’Ue di esprimersi: la Grecia, che ha beneficiato in questi ultimi anni di massicci investimenti cinesi ha impedito il mese scorso alla Commissione europea di consegnare una dichiarazione sugli abusi commessi in Cina alla commissione dei diritti umani dell’Onu, un fatto mai visto prima.

Tra gli anni novanta, quando le democrazie occidentali sventolavano la bandiera dei diritti umani, e il 2010, quando sono discretamente spariti dall’agenda politica, non siamo forse passati da un eccesso all’altro? Se è vero che i diritti umani non possono essere la panacea di qualsiasi azione diplomatica, la loro scomparsa contraddice tuttavia la costante invocazione dei “valori” a cui questi stati dicono di aderire.

In un mondo complesso, dove in alcune grandi potenze i diritti umani stagnano o sono addirittura in chiara regressione, è venuto chiaramente il momento di ridefinire il loro ruolo nelle relazioni internazionali.

La primavera lontana
Le società civili dovrebbero fare sentire il loro peso in questo senso, per fare in modo che un mondo fondato sull’arbitrio e sulla realpolitik non s’impianti in maniera durevole nelle relazioni tra gli stati. Si tratta chiaramente di una pia illusione, ma è anche il messaggio che alcune persone vorrebbero veder emergere dalla tragica morte di Liu Xiaobo.

Secondo Chang Ping, il giornalista cinese esiliato nel cuore di un’Europa che egli credeva più vigorosamente attaccata ai suoi valori, “il governo cinese preferiva che il mondo intero assistesse alla morte di Liu Xiaobo piuttosto che garantirgli un minimo di libertà e la possibilità di vivere un po’ più a lungo. È la prova del fallimento della democrazia discreta. Questo mostra fino a che punto i dirigenti del mondo occidentale, quando hanno paura del Partito comunista cinese, abbandonino a loro volta i princìpi della civiltà moderna, inclusi i diritti umani, la libertà e la democrazia, a favore di una diplomazia segreta che altro non è se non un esercizio di autoumiliazione. Possa la morte di Liu Xiaobo dare loro la sveglia”.

Non è certo che le sue parole saranno ascoltate, visto quanto gli interessi economici, la paura del terrorismo e le derive di maggiore sicurezza che essa genera, e le contraddizioni tra stati pesano oggi su qualsiasi azione collettiva. Per le vittime delle violazioni dei diritti umani, e per i loro difensori, la primavera è ancora lontana.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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