In un mondo in cui l’arretramento della democrazia sta diventando la norma, è quasi naturale dimenticare quei luoghi dove invece gode di buona salute. È il caso di Taiwan, esempio di un paese che, pur essendo percepito come un paria rispetto alla Cina, è in realtà quello dove le libertà sono più rispettate.
Secondo Reporter sans frontières, tra i paesi asiatici Taiwan è in testa alla classifica della libertà di stampa, non ha un solo prigioniero politico, ha conosciuto lo scorso anno una nuova alternanza democratica, rispetta la libertà d’associazione e di culto, e possiede una delle società civili più dinamiche al mondo.
Eppure Taiwan “non esiste”. La Cina si sta adoperando per cancellarne progressivamente la presenza. Il presidente Xi Jinping sta comprando uno dopo l’altro gli stati che ancora intrattengono rapporti diplomatici con Taipei, come il Burkina Faso, ultimo in ordine di tempo ad aver rotto i rapporti con l’isola per rientrare nell’orbita di Pechino e godere dei benefici economici derivanti dalla nuova via della seta. Sono meno di venti i paesi che hanno ancora rapporti con Taipei, perlopiù minuscoli stati del Pacifico – o il Vaticano, a sua volta impegnato con Pechino in negoziati finora infruttuosi.
Sulla linea del fronte
A questo crescente isolamento diplomatico – che priva Taiwan dell’accesso alle organizzazioni internazionali e alle Nazioni Unite – si aggiunge un nuovo elemento: Pechino fa pressione sulle compagnie aeree e sulle aziende affinché smettano di presentare Taiwan come un paese a sé, minacciandole di subire rappresaglie. Air France-Klm si è piegata a questo ricatto: il suo nuovo volo non è più diretto a “Taipei, Taiwan” ma semplicemente a Taipei.
“Taiwan è sulla linea del fronte”, ha sottolineato la presidente Tsai Ing-wen, esponente del Partito democratico, che però evita ogni accenno a un cambiamento di status dell’isola per evitare di creare un casus belli con Pechino. Questa “linea del fronte” non va intesa in senso militare, anche se la paura di un conflitto è spesso evocata dai mezzi d’informazione.
Taiwan è una delle pedine dello scacchiere asiatico, e su questo scacchiere oggi si decide parte del futuro del mondo. I taiwanesi – a partire dai suoi dirigenti in stato di agitazione costante a causa dell’ostilità di Pechino – sanno quali partite si giocano intorno a loro, e spesso senza che possano intervenire.
In particolare, non riescono a decifrare il comportamento di Donald Trump nei confronti della Cina. La politica del presidente statunitense è apprezzata a Taipei, visto che ha rafforzato i legami tra gli Stati Uniti e l’isola (la rappresentanza degli Stati Uniti a Taipei ha appena inaugurato la nuova sede in un edificio molto più grande del precedente), e ha scelto una politica di “contenimento” – per riprendere un termine usato durante la guerra fredda – della potenza cinese. Ma, sottolinea un diplomatico europeo a Taipei, il paese sa di essere strumentalizzato da Trump, che potrebbe presto trascurarlo o addirittura tradirlo, se dovesse improvvisamente trovare vantaggioso avere migliori relazioni con il suo “amico” Xi Jinping.
Diplomazia e tecnologia
I taiwanesi hanno comunque due carte importanti da giocare: la democrazia e una buona tecnologica nel settore dei semiconduttori. È un segno della nostra epoca, quello di non valorizzare l’esistenza di una democrazia in una regione dove ce ne sono pochissime. Tra una Cina autoritaria, che con Xi Jinping ha ulteriormente inasprito la repressione, e una Taiwan libera e aperta, dovrebbe essere semplice schierarsi… Ma l’attrattiva economica pende molto di più a favore di 1,4 miliardi di cinesi che di 23 milioni di taiwanesi, anche se hanno un forte potere d’acquisto.
Taiwan è diventata una democrazia parlamentare trent’anni fa dopo essere riuscita a sbarazzarsi della sua dittatura militare. Oggi usa il suo soft power tessendo legami con le società civili degli altri paesi asiatici, spesso governati da governi autoritari, o nel bel mezzo di transizioni delicate.
Due decenni fa Taiwan era il gigante economico e la Cina il paese in ritardo. Oggi i rapporti si sono rovesciati
La Fondazione taiwanese per la democrazia, finanziata da quindici anni con fondi pubblici, è il ramo esecutivo di questa strategia: alla fine di giugno ha organizzato a Taipei un vertice regionale, al quale hanno partecipato, tra gli altri, un giornalista filippino che ha dovuto fare i conti con il regime di Rodrigo Duterte, e un attivista malese che ha raccontato come a Kuala Lumpur siano stati spazzati via dalle urne più di sessant’anni di autoritarismo con le elezioni di maggio. C’era anche un ex sindacalista indipendente cinese in esilio. I dirigenti del Partito progressista democratico, al potere a Taiwan, vedono in alcuni paesi asiatici dei possibili alleati per opporsi all’influenza cinese, anche se il peso economico di Pechino resta il fattore dominante in questi rapporti di forza.
Taipei vuole anche conservare il suo vantaggio tecnologico, che di recente ha dimostrato di avere un peso notevole. Il caso Zte – il gigante cinese delle telecomunicazioni al centro di un losco affare con l’amministrazione statunitense, e che ha rischiato di fallire quando Washington l’ha privato dei componenti elettronici perché ha violato le sanzioni contro l’Iran – ha rivelato la vulnerabilità della Cina. Malgrado la sua forte crescita, Pechino non ha ancora raggiunto il livello tecnologico che le permetterebbe di rinunciare ai microprocessori di cui Taiwan è uno dei maggiori produttori insieme agli Stati Uniti e alla Corea del Sud.
Negli ambienti del colosso Taiwan semiconductor manufacturing company (Tsmc), numero uno mondiale del settore, si ritiene che alla Cina serviranno più di dieci anni per recuperare il ritardo, anche se il presidente Xi Jinping ha messo la questione in cima alle priorità. Tsmc ha mantenuto la sua sede a Taiwan, contrariamente a molte altre industrie dell’isola che hanno investito in maniera massiccia nella Cina continentale, come per esempio Foxconn, che fabbrica in Cina i telefoni di Apple o di Samsung.
Il caso Zte peraltro ha suscitato – fatto raro – un dibattito pubblico in Cina, come ha scritto il South China Morning Post. Il quotidiano di Hong Kong, di proprietà del miliardario cinese Jack Ma, cita Liu Yadong, caporedattore del giornale filogovernativo Keji Ribao (Quotidiano della scienza e della tecnologia), il quale avrebbe affermato che la Cina “si sta facendo delle illusioni” se pensa di poter superare presto gli Stati Uniti nel settore scientifico e tecnologico.
“Il grande divario scientifico e tecnologico tra la Cina e i paesi occidentali dovrebbe essere un fatto riconosciuto e non un problema. Ma diventa un problema quando le persone che esaltano in maniera eccessiva i traguardi cinesi mentono ai dirigenti, alle persone e a se stessi”, ha aggiunto il giornalista cinese, in una rara critica pubblica alla propaganda ufficiale.
Due decenni fa Taiwan era il gigante economico e la Cina il paese in ritardo. Oggi i rapporti si sono rovesciati e l’ascesa economica cinese lascia credere che l’isola potrebbe un giorno cadere nelle braccia di Pechino come un frutto maturo.
Taipei cerca, in un ambiente perlopiù ostile, di trovare un suo posto nel gioco regionale. Protetta di fatto dagli Stati Uniti, ha anche intessuto legami stretti con il Giappone, nel caso in cui gli statunitensi, con o senza Trump, decidessero un giorno di ritirarsi dalla zona asiatica e del Pacifico.
Tutto può succedere
Taiwan segue con altrettanta attenzione le grandi manovre a proposito della Corea del Nord, che potrebbero influenzare la sicurezza regionale, a cominciare dall’impegno degli Stati Uniti.
In realtà, in quest’epoca in cui la potenza dominante (gli Stati Uniti) e la potenza emergente (la Cina) si osservano e si mettono alla prova – sul terreno commerciale e tecnologico, nel mare Cinese meridionale e nello stretto di Formosa – tutto può accadere, che si tratti di una combinazione fatale che porterà a una guerra, o di un negoziato che determinerà un nuovo modus vivendi per i prossimi anni.
Dobbiamo quindi prepararci a tutte le possibilità per Taiwan. In questo delicato contesto, l’immagine democratica dell’isola è uno strumento determinante di soft power, l’unico su cui Pechino non può sicuramente contare.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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