Un giorno racconteranno questa storia nelle scuole di marketing per far capire cosa non bisogna fare. È un caso che fa scuola di suicidio commerciale da parte di uno dei grandi marchi del lusso mondiale, Dolce&Gabbana, in un paese, la Cina, che rappresenta un terzo delle spese di lusso al mondo.
Mercoledì gli stilisti italiani avrebbero dovuto tenere una sfilata di moda a Shanghai, alla presenza delle più grandi stelle dello spettacolo cinese. La casa di moda aveva fatto precede l’evento, intitolato “Dolce&Gabbana ama la Cina”, da una serie di brevi video pubblicati sui social network che avrebbero voluto essere sofisticati e divertenti.
Ma è lì che tutto è andato storto, perché difficilmente l’umorismo supera le frontiere. I video mostravano una donna cinese molto elegante davanti a un piatto italiano come la pizza o un cannolo, nel tentativo di mangiarli con le bacchette. Una voce di uomo le spiega come utilizzarle per prendere la pasta o la pizza.
La cosa non è stata apprezzata. I commenti scandalizzati hanno invaso i potenti social network cinesi, definendo nel migliore dei casi i video come orientalisti e paternalisti, nel peggiore offensivi e razzisti. La valanga di critiche ha spinto le personalità cinesi ad annullare la loro partecipazione alla sfilata, che è stata cancellata all’ultimo minuto.
Ma non è tutto: Stefano Gabbana, uno dei fondatori del marchio, si è lasciato andare in una conversazione (teoricamente privata) su Instagram a una serie di commenti negativi sulla Cina e i cinesi, corredati con una fila di emoticon di escrementi. In questo modo la casa di moda italiana ha messo in atto, nel giro di 24 ore, la più grande anti-campagna pubblicitaria della storia, in un paese con 1,4 miliardi di abitanti.
Gabbana ha sostenuto che il suo profilo è stato hackerato, ma il danno ormai è fatto ed è di proporzioni enormi. Ieri sono stati pubblicati 120 milioni di messaggi ostili nei confronti di Dolce&Gabbana, un record assoluto.
Il morale della favola è duplice: Dolce&Gabbana non è il primo marchio straniero a scivolare su una pubblicità in Cina, dunque i due stilisti avrebbero dovuto essere consapevoli di essersi avventurati su un terreno scivoloso. Una volta commesso l’errore, avrebbero dovuto sostenere che era stato un malinteso, anziché attaccare un paese intero accusandolo di non aver compreso il loro talento.
Ma soprattutto la grande lezione da trarre è che non si gioca con il sentimento nazionale dei cinesi. Di sicuro non nel 2018, quando la Cina è la seconda potenza economica mondiale e ha social network invasi dal nazionalismo.
Nel clima da nuova guerra fredda con gli Stati Uniti, presentato da Pechino come un tentativo dell’occidente di fermare la potenza cinese dopo le guerre dell’oppio nel diciannovesimo secolo, basta poco per infiammare la Cina.
Dietro la futilità dell’intera vicenda traspaiono i nuovi rapporti di forza internazionali, che gli stilisti italiani hanno ignorato pagandone le conseguenze.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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