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Il gruppo Stato islamico perde il suo territorio ma la pace è ancora lontana

Edifici bombardati nel villaggio di Khan al Sabil, nella provincia di Idlib, Siria, 20 gennaio 2019. (Anas Alkharboutli, Picture-alliance/Dpa/Ap/Ansa)

All’apice della sua potenza, il gruppo Stato islamico (Is) controllava un territorio grande quanto il Regno Unito, a cavallo tra la Siria e l’Iraq. In questo momento, invece, alcune centinaia di combattenti dell’Is continuano a combattere per conservare il controllo dell’ultimo fazzoletto di terra e di circa duemila civili nella regione di Deir Ezzor, sulla riva orientale dell’Eufrate, in Siria.

Le forze arabo-curde, assistite da statunitensi e francesi, sono sul punto di chiudere una pagina importante di questa guerra che prevedeva la creazione di un califfato sul suolo dei due stati, con una capitale, una bandiera, un’economia e un califfo autoproclamato, Abou Bakr al Baghdadi.

È in questo territorio che sono stati pianificati gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e tanti altri, ed è qui che si sono recati i giovani musulmani provenienti da tutto il mondo e attirati dal mito di una rinascita o semplicemente dal desiderio di avventura.

Questa pagina si sta finalmente chiudendo, ma non siamo ancora arrivati alla fine dello scontro con i jihadisti né della guerra in Siria. Per non parlare della prospettiva di pace, ancora lontana in questo Medio Oriente così tormentato.

L’Is ha perso il suo territorio, ma non è scomparso. Migliaia di uomini si sono rifugiati nelle zone rurali e ricorrono a metodi più classici. In Iraq si registrano centinaia di azioni di guerriglia dopo la riconquista di Mosul dell’anno scorso. Nel frattempo l’Is esporta il suo marchio in Asia e in Africa alla ricerca di altre faglie in un mondo musulmano destabilizzato.

Nessuna delle radici dell’instabilità in Medio Oriente è stata affrontata

Paese martire, la Siria non ha ancora messo fine alla sua guerra. Il fronte orientale resta attivo e intanto l’attenzione si sposta verso l’enclave di Idlib, nel nordovest, dove si trovano migliaia di combattenti sopravvissuti ad altre battaglie. Il 13 febbraio, a Soči, la Russia, la Turchia e l’Iran si sono coordinati per “distruggere completamente il focolaio terrorista di Idlib”, per usare le parole di Vladimir Putin. Da tre mesi è in fase di preparazione un’offensiva in questa regione dove, non dimentichiamolo, tre milioni di persone vivono nella paura.

Infine c’è il problema dei prigionieri jihadisti e delle loro famiglie. Donald Trump ha invitato l’Europa a recuperare i suoi circa ottocento cittadini partiti per la guerra e ora prigionieri della coalizione in Siria. La Francia ha già accettato. Ma cosa fare nel lungo periodo con questi uomini, donne e bambini perduti?

Non abbiamo ancora imparato la lezione dalla vicenda dell’Is, ed è questo l’aspetto più inquietante. Nessuna delle radici dell’instabilità in Medio Oriente è stata affrontata: né le fratture religiose in Iraq né la ricerca di una via d’uscita politica dalla guerra in Siria e nemmeno il destino dei curdi che hanno combattuto il gruppo Stato islamico ma oggi si ritrovano aggrediti dalla Turchia.

In sostanza non ci sono molte ragioni per esultare davanti alla sconfitta del califfato, perché non è stato fatto niente per scongiurare la nascita di un Is 2.0 o di qualsiasi nuovo avatar del miraggio del jihad purificatore.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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