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Erdoğan gioca la carta islamica per vincere le amministrative

L’edificio di Santa Sofia a Istanbul, il 26 marzo 2019. (Yasin Akgul, Afp)

Se foste il presidente di un paese in recessione dove la moneta precipita sui mercati e l’inflazione galoppa, cosa vi inventereste per vincere le elezioni? Semplice: trovereste un diversivo. È esattamente quello che ha fatto il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha stranamente deciso di trasformare le elezioni amministrative del 31 marzo in un importante test politico da non fallire.

La diversione, in questo caso, è arrivata in settimana con un annuncio inatteso: Erdoğan vuole riportare a moschea l’edificio di Santa Sofia, celebre monumento di Istanbul dalla storia peculiare: prima basilica cristiana di Costantinopoli, poi moschea sotto il dominio ottomano e infine trasformata in museo nel 1934 dal laico Atatürk.

Per il presidente islamico-conservatore la scelta di Atatürk fu “un errore grossolano”. Erdoğan sa bene di toccare un simbolo universale. Atatürk aveva giustificato la sua scelta dichiarando di voler offrire Santa Sofia “all’umanità”, mentre Erdoğan ha deciso di seguire la direzione opposta sperando che la sua base elettorale sunnita e conservatrice possa apprezzare il gesto.

Ritorno al passato ottomano
Non dobbiamo dimenticare, come ha ricordato la giornalista francese Ariane Bonzon nel suo recente Turquie, l’heure de la vérité (Turchia, l’ora della verità) che Erdoğan è “l’unico leader prodotto dall’islam politico ad aver guidato per sedici anni uno stato dell’area. Il presidente turco ha una missione: riconciliare la Turchia con il suo passato ottomano”.

Ma tutto questo non basta per assicurarsi una vittoria elettorale, perché il contesto è complesso. L’economia turca attraversa un momento difficile e una parte della popolazione è colpita dall’aumento dei prezzi dei prodotti di base.

Dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016 Erdoğan ha messo in atto una gigantesca manovra repressiva

Il presidente ha fatto aprire negozi che vendono frutta e verdura a prezzi sovvenzionati, ha usato un terzo delle riserve finanziarie per sostenere la moneta e ha lanciato una campagna contro l’occidente, accusato di cospirare contro la Turchia (nonostante il paese faccia parte della Nato).

Tutto questo per non perdere le grandi città – tra cui la capitale Ankara – che rischiano di sfuggire al controllo del partito di Erdoğan, l’Akp. Il rilancio nazionalista, tuttavia, non sembra raccogliere il successo sperato.

Dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016 Erdoğan ha messo in atto una gigantesca manovra repressiva, con decine di migliaia di arresti e licenziamenti di giudici, funzionari, insegnanti e giornalisti.

Ogni settimana porta con sé nuovi nomi, come quello del professore dell’università di Galatasaray Füsun Ustel, condannato a quindici mesi di carcere per aver firmato una petizione nel 2016, o il filosofo Osman Kavala, in prigione dall’ottobre 2017 per il suo appoggio alla società civile turca.

Nonostante questa repressione, insomma, il presidente ha paura di perdere le elezioni amministrative. È il grande paradosso degli “uomini forti” come Erdoğan, comunque costretti a ottenere il consenso delle urne.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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