Nello stretto di Hormuz, sulle cui sponde affacciano l’Iran da un lato e gli Emirati Arabi Uniti e il sultanato dell’Oman dall’altro, transitano ogni anno 2.400 petroliere. Si tratta innegabilmente di uno dei punti nevralgici del pianeta che nessuno può pensare di toccare senza prendere le dovute precauzioni.

È per questo che l’improvviso aumento della tensione con l’annuncio da parte degli Emirati e dell’Arabia Saudita di un “sabotaggio” subìto da quattro loro navi ha creato una forte preoccupazione. I due paesi non hanno fornito altri dettagli, né sulla natura dell’attacco né sugli autori, ma basta seguire il loro sguardo per capire che la protesta è indirizzata al di là dello stretto, verso l’Iran.

La notizia arriva in un momento di grande agitazione, con il blocco petrolifero imposto dagli Stati Uniti a Teheran, l’invio di una forza aeronavale di Washington nella zona e l’iperattività diplomatica del segretario di stato statunitense Mike Pompeo, che il 13 maggio si è “autoinvitato” a una riunione a Bruxelles. Senza dimenticare le minacce dell’Iran a proposito dell’accordo sul nucleare.

Nel giro di pochi giorni, in una zona che somiglia sempre più a una polveriera, le acque si sono mosse parecchio.

Il capo della diplomazia britannica, Jeremy Hunt, ha inquadrato bene la situazione il 13 maggio dichiarando di temere una guerra “per distrazione”, ipotizzando che l’accumulo di frizioni possa portare inevitabilmente a un confronto.

Washington spera di forzare Teheran all’errore e crea le condizioni per un cambiamento di regime in Iran

Il problema è che questo clima di guerra ha un forte sentore di artificiale. È difficile distinguere tra vero e falso nelle informazioni disponibili, che sono dunque da prendere con le molle.

Gli Stati Uniti hanno un gigantesco deficit di credibilità, soprattutto considerando che a manovrare le azioni della Casa Bianca c’è John Bolton, consulente per la sicurezza nazionale di Donald Trump sopravvissuto all’amministrazione Bush e alla sua invasione dell’Iraq del 2003, basata su clamorose menzogne sulla presenza di armi di distruzione di massa.

Oggi Washington spera di forzare Tehran all’errore e crea le condizioni per un cambiamento di regime in Iran, ritenuto a portata di mano dal governo statunitense.

Un precedente preoccupante
L’Iran, malgrado tutto quello che gli si può rimproverare sul piano interno e regionale (non poco), ha rispettato l’accordo sul nucleare concluso nel 2015, come verificato e confermato dalle ispezioni dell’Aiea, l’agenzia incaricata di sorvegliare che l’energia atomica non sia usata per scopi militari. Non si può dire lo stesso di Donald Trump, che un anno fa ha ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo.

Che il regime iraniano presenti diversi aspetti deprecabili è evidente, ma lo stesso vale per quello dell’Arabia Saudita, alleato degli Stati Uniti, che pochi giorni fa ha eseguito la condanna a morte di alcuni minatori e sta conducendo una brutale guerra in Yemen.

Il problema odierno somiglia molto a quello del 2003 con l’Iraq. Saddam Hussein era un dittatore abominevole, ma con la loro invasione gli Stati Uniti hanno spalancato le porte dell’inferno. Possiamo pensare che Washington stia ripetendo lo stesso errore cercando di provocare la caduta di un regime con cui ha un contenzioso storico? Se così fosse, sarebbe molto preoccupante.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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