I capi di stato e di governo non perdono tempo. Quarantotto ore dopo il voto, si ritrovano martedì sera a Bruxelles con un compito difficile: scegliere i dirigenti dell’Unione per i prossimi cinque anni.
La divisione degli incarichi più importanti tra i vincitori sembra una questione trascurabile. In realtà non si tratta tanto di un problema di nomi, quanto di tracciare la rotta dell’Europa in un momento in cui l’Unione subisce gli attacchi dell’estrema destra e rischia di essere emarginata in un mondo di giganti senza pietà.
I volti che rappresenteranno l’Europa hanno una loro importanza, non fosse altro che per permettere agli oltre cinquecento milioni di cittadini europei di identificarsi con la struttura impersonale che molti chiamano semplicemente “Bruxelles”.
Ai tempi in cui era presidente della Commissione, dal 1985 al 1995, Jacques Delors aveva avuto un certo talento ed era diventato noto anche fuori dalla Francia. Ma era un’altra epoca. Più recentemente, José Manuel Barroso o il presidente uscente Jean-Claude Juncker non sono riusciti a incarnare il ruolo da un punto di vista popolare. Lo stesso vale per Herman Van Rompuy e Donald Tusk, i due presidenti del Consiglio europeo che si sono alternati dal 2009, anno della creazione dell’incarico.
A Bruxelles, martedì sera, la discussione sarà molto animata, perché il il Partito popolare europeo (Ppe), gruppo più nutrito del nuovo parlamento e legato alla destra conservatrice, rivendica la presidenza della commissione per il suo capofila, Manfred Weber. Esponente della Csu, alleato bavarese di Angela Merkel, Weber presenta due difetti: un deficit di notorietà (nonostante l’ultima campagna elettorale) e una carriera da europarlamentare senza grande spessore. Nominare Weber significa garantire che l’Europa continuerà sulla strada della disaffezione che tanto bene conosciamo.
Dato che il Ppe ha perso consensi (in Francia con la sconfitta dei Repubblicani, in Germania con il calo della Cdu e in Spagna con il crollo dei popolari), gli oppositori hanno alzato la cresta. Lunedì, a Parigi, il numero due della lista La République en marche, Pascal Canfin, sottolineava che la candidatura di Manfred Weber ha “perso credibilità”, esprimendo evidentemente l’opinione del presidente francese Emmanuel Macron.
In precedenza la Francia aveva spinto per Margrete Vestager, commissaria europea danese e donna molto popolare che si è guadagnata il rispetto generale per le lotte con i giganti digitali degli Stati Uniti. Ma anche Vestager presenta un grosso difetto: viene da un paese esterno all’eurozona. Una scelta di compromesso, per Parigi, potrebbe essere quella di Michel Barnier, negoziatore della Brexit che ha dimostrato il suo valore e fa parte dell’ala moderata del Ppe di Angela Merkel.
Tutto dipenderà dalle maggioranze che si formeranno nella nuova configurazione. Il Ppe dovrà dialogare con le forze in ascesa, i liberali e i verdi.
In questo senso Macron potrebbe essere l’ago della bilancia in Europa, come riporta il sito di Bruxelles Euractive sottolineandone l’aspetto paradossale, dato che il partito del presidente francese non ha certo trionfato alle elezioni.
Questo presunto ruolo cruciale di Macron sarà messo alla prova per la prima volta martedì sera, quando l’Europa dovrà evitare di mostrare lo spettacolo delle divisioni interne e della spartizione degli incarichi. Ci vorrà l’arte del compromesso per accontentare tutti, cittadini europei compresi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it