Questa settimana, in Sudan, paese che vive da mesi una rivolta pacifica contro una dittatura e recentemente sprofondato nella violenza, è morta una speranza. Il Sudan era diventato un caso scuola per capire se è davvero possibile negoziare e gestire una transizione democratica con un esercito che ha deciso di sbarazzarsi di un dittatore diventato ingombrante. La risposta è no, almeno in Sudan.
Il 3 giugno le forze paramilitari hanno compiuto un massacro a Khartoum tra i manifestanti che da mesi portavano avanti un sit-in davanti al quartier generale dell’esercito manifestando le loro rivendicazioni. Trentacinque morti e centinaia di feriti, una violenza evidentemente deliberata e destinata a piegare il movimento seminando il terrore.
Il 4 giugno, i militari che guidano il paese dalla deposizione del presidente Omar Al Bashir, arrestato lo scorso 11 aprile, hanno cancellato tutti gli accordi raggiunti con le organizzazioni della società civile, che sembravano annunciare una transizione pacifica. Per distogliere l’attenzione da quanto accaduto, il capo del consiglio militare, il generale Abdel Fattah al Burhan, ha annunciato nuove elezioni tra nove mesi, ma la piazza non intende partecipare in queste condizioni.
Negoziati sospesi
Siamo davanti al ritorno della dittatura? Di sicuro si tratta di una battuta d’arresto in un processo che sembrava poter essere esemplare e in cui milioni di manifestanti avevano creato istanze rappresentative che stavano negoziando con i vertici militari il ritorno a un governo civile.
I sudanesi puntano il dito contro un’unità paramilitare, le Forze di supporto rapido del generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto con il nome di guerra di Hemeti e autore di una dimostrazione di forza. L’esercito regolare è rimasto passivo, scavalcato.
Sul fronte della piazza si parla ormai di disobbedienza civile per contrastare le ambizioni dei militari, che segnerebbero la fine della delicata rivoluzione sudanese. I leader civili accusano anche i paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, finanziatori del Sudan che si preoccuperebbero di un possibile contagio delle rivendicazioni popolari.
Sia in Sudan sia in Algeria i militari hanno deposto gli uomini al potere per calmare le acque
Dopo le rivoluzioni arabe del 2011 siamo consapevoli di quanto le emozioni e le informazioni circolino rapidamente. Il caso ha fatto sì che quasi contemporaneamente il Sudan e l’Algeria, due paesi dalla storia e dalla sociologia profondamente diverse, abbiano vissuto situazioni simili. In Algeria c’è stata la rivolta della società civile contro il quinto mandato del presidente Bouteflika, mentre in Sudan il popolo si è schierato contro una dittatura islamista militare che ha devastato il paese.
Il sistema resiste
Al Bashir e Bouteflika sono stati deposti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, in modi simili: messi alla porta dalla gerarchia militare per calmare le acque. Ma in entrambi i casi la piazza ha mantenuto alta la pressione per sbarazzarsi di un intero sistema, non solo di un uomo.
Il controesempio sudanese segna il ritorno della violenza, laddove in Algeria prosegue un faccia a faccia molto teso tra la piazza e il generale Gaid Salah, che ha preso in mano il potere. Il sistema, in altre parole, resiste.
Possiamo pensare che sia inevitabile uno scenario all’egiziana, in cui l’esercito finisce per prevalere? I popoli arabi cercano di rompere questo circolo vizioso, ma il caso del Sudan ci fa capire quanto sia difficile.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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