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Otto giorni per fermare la tensione tra Iran e Stati Uniti

La portaerei della marina statunitense nel mar Arabico, il 3 giugno 2019. (Jon Gambrell, Ap/Ansa)

Un conto alla rovescia inquietante è partito nella regione arabo-asiatica del golfo, alimentando una grave crisi internazionale che nel contesto globale attuale nessuno sembra in grado di disinnescare in tempo.

Per capire la situazione è necessario fare un passo indietro: nel 2015 l’Iran ha firmato, dopo un lungo negoziato, un accordo internazionale con cui si impegnava a mettere fine al proprio programma nucleare militare. In cambio, la comunità internazionale ha cancellato le sanzioni delle Nazioni Unite nei confronti di Teheran. È stato il grande successo diplomatico dell’amministrazione di Barack Obama e dell’Europa, molto impegnata nella trattativa.

Durante la sua campagna elettorale, Donald Trump ha criticato il testo dell’accordo definendolo “il peggiore della storia” e promettendo di cancellarlo una volta eletto. All’inizio del 2018 il presidente francese Emmanuel Macron ha tentato invano di dissuadere Trump sottolineando che, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Iran aveva rispettato i termini dell’accordo, a prescindere dalle giustificabili riserve nei confronti del regime iraniano e del suo comportamento nella regione.

La crisi attuale
Non solo Trump ha mantenuto la parola [rinnegando l’anno scorso l’adesione degli Stati Uniti all’accordo](http://Tre scenari internazionali dopo l’annuncio di Trump), ma ha imposto nuove sanzioni contro l’Iran, stavolta unilaterali, accompagnandole con un embargo sulle esportazioni petrolifere di Teheran. Questo è il contesto della crisi attuale.

In settimana l’Iran ha annunciato che il 27 giugno violerà l’accordo internazionale sul nucleare accumulando una quantità di uranio arricchito superiore a quella prevista dal testo. È una decisione ponderata che rischia di innescare una reazione a catena.

Passo dopo passo ci avviciniamo a una situazione in cui tutto sarà possibile

Da qualche giorno assistiamo a un’escalation. Dopo l’attacco contro due petroliere nel mar d’Oman, di cui gli Stati Uniti hanno incolpato l’Iran, Washington ha deciso di inviare un migliaio di soldati in più nella regione. È un gesto puramente simbolico, considerando che per attaccare l’Iraq la Casa Bianca aveva inviato 300mila uomini.
La risposta iraniana è l’annuncio sul nucleare che provoca già reazioni dure a Washington, in pieno clima pre-elettorale. E così, passo dopo passo, nonostante Iran e Stati Uniti dichiarino di non volere la guerra, ci avviciniamo a una situazione in cui tutto sarà possibile, compreso uno scontro frontale che nessuno vorrebbe vedere.

L’Iran è asfissiato dall’embargo statunitense, e la sua decisione è principalmente un segnale inviato agli europei. Questi ultimi – francesi, tedeschi e britannici, oltre alla Commissione europea – hanno fatto di tutto nell’ultimo anno per salvare la struttura dell’accordo nonostante le bordate di Trump. Ma non sono stati capaci di offrire a Teheran l’ossigeno economico di cui ha bisogno per sopravvivere.

Annunciando la morte programmata dell’accordo sul nucleare, i leader iraniani mettono gli europei davanti alle loro responsabilità. Ma intendiamoci, gli europei non hanno i mezzi per opporsi alla strategia di Washington. La crisi, insomma, è destinata ad aggravarsi.

Il conto alla rovescia può essere interrotto in qualsiasi momento, ma Teheran ha bisogno di una buona ragione per rinunciare ai suoi propositi. Restano otto giorni per impedire che si superi una nuova soglia in questa marcia verso il conflitto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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