Senza un dialogo, Hong Kong sprofonda nella violenza
L’11 novembre ha segnato una nuova tappa nella spirale di violenza che sembra aver travolto Hong Kong, dopo più di quattro mesi segnati da grandi manifestazioni inizialmente pacifiche.
Infatti è circolato un video in cui si vede un poliziotto sparare a un manifestante da distanza ravvicinata, mentre un altro video mostra un civile cosparso di benzina e dato alle fiamme. I due sono gravemente feriti. L’8 novembre un manifestante è morto in seguito alle ferite riportate cadendo dal quarto piano di un parcheggio durante una carica della polizia. Alcuni agenti hanno picchiato selvaggiamente i manifestanti all’interno di una chiesa. In un altro video si vede un agente in moto mentre cerca di investire un gruppo di giovani vestiti di nero.
Sono scene che si ripetono quasi quotidianamente e raccontano la discesa all’inferno di un territorio che in linea di principio dovrebbe essere autonomo dalla Cina continentale. A Hong Kong si respira un clima da guerra civile che sembra ormai impossibile da superare.
Benzina sul fuoco
A giugno le prime manifestazioni hanno coinvolto fino a due milioni di persone, quasi un terzo della popolazione di Hong Kong. I manifestanti si opponevano a un progetto di legge che avrebbe permesso l’estradizione verso la Cina, dove la giustizia non è indipendente.
Ma la risposta tardiva delle autorità (che dopo aver sospeso il progetto di legge hanno atteso settimane prima di ritirarlo del tutto) e la brutalità delle forze dell’ordine hanno rapidamente radicalizzato i giovani di Hong Kong, che hanno poi stilato una lista di cinque rivendicazioni di cui finora ne è stata accolta soltanto una, appunto il ritiro della legge.
La donna alla guida dell’esecutivo, Carrie Lam, scelta da Pechino, ha escluso qualsiasi apertura. “Chi crede che l’escalation di violenza farà arretrare il governo è un illuso”, ha precisato. Il rappresentante di Pechino a Hong Kong, Zhang Xiaoming, ha chiesto leggi per rafforzare la sicurezza. Non esattamente un modo per calmare gli animi.
I giovani non sono disposti a cedere e si sono convinti che la non violenza non funzioni
In questo momento non esiste la possibilità di un dialogo. Da un lato c’è un governo cinese irritato dal radicalismo della protesta e preoccupato di non apparire debole, mentre dall’altro ci sono i manifestanti pronti a tutto e che a volte compiono gesti estremi, come dimostra il caso dell’uomo dato alle fiamme.
I giovani non sono disposti a cedere. Dopo il fallimento della “rivoluzione degli ombrelli” del 2014, che chiedeva l’elezione a suffragio universale diretto del governatore di Hong Kong, si sono convinti che la non violenza non funzioni. Sovreccitati da settimane di scontri e ormai con i loro martiri, continuano a radicalizzarsi.
L’impatto di questo scontro è enorme. Hong Kong è entrata in recessione, mentre la distanza con il resto della Cina continua a crescere. La popolazione del continente è bombardata dalla propaganda unilaterale, e l’11 novembre ha visto solo le immagini dell’uomo in fiamme.
Pechino non vuole un’altra Tiananmen a Hong Kong, ma è disposta a lasciare che il territorio si autodistrugga in questa rivolta animata dai giovani, che in fin dei conti vorrebbero soltanto difendere la propria libertà.
(Traduzione di Andrea Sparacino)