L’India, si sa, è la più grande democrazia del mondo. Eppure di questi tempi sarebbe meglio aggiungere l’aggettivo “illiberale”, condiviso da altri paesi che continuano a mantenere in apparenza un funzionamento democratico senza però mostrare una grande fedeltà ai valori della democrazia.

Il primo ministro Narendra Modi, nazionalista indù che quest’anno ha ottenuto facilmente la rielezione, ha suscitato le ire di parte del paese con una legge discriminatoria sulla nazionalità. La legge, adottata l’11 dicembre, concede la nazionalità indiana a tutte le persone che fuggono dai paesi vicini a causa di persecuzioni religiose. Con un’unica eccezione: i musulmani.

Questa esclusione ha alimentato la collera, perché tra le altre cose è in contraddizione con la costituzione indiana, che nel 1949 i padri della patria hanno voluto laica ed egalitaria. I detrattori della legge ritengono che nei fatti trasformi i musulmani in cittadini di seconda categoria.
La questione è evidentemente delicata in un paese che al momento della sua nascita ha vissuto una dolorosa separazione dal Pakistan musulmano, ma dove vivono più di 200 milioni di fedeli dell’islam.

Narendra Modi appartiene a un gruppo nazionalista indù che assimila l’India alla maggioranza induista del paese. Quando era primo ministro dello stato del Gujarat, all’inizio del nuovo millennio, la provincia è stata teatro delle peggiori violenze contro i musulmani dalla separazione del 1947.

La scrittrice e attivista Arundathi Roy ha paragonato la legge sulla nazionalità alle leggi naziste di Norimberga

Pur mostrando una moderazione di facciata, Modi porta avanti un programma fedele al movimento che ha permesso la sua ascesa in nome del nazionalismo induista.

Il primo ministro, sicuramente, non si aspettava una reazione così rabbiosa contro la legge, con manifestazioni in molte grandi città e dall’inizio di questa settimana una rivolta universitaria dopo una serie di incidenti violenti a Delhi. Anche in India sono i giovani a esporsi in prima linea contro l’ingiustizia.

La polarizzazione del paese è estrema. La scrittrice Arundathi Roy, attivista di tutte le battaglie, ha paragonato la legge sulla nazionalità alle leggi naziste di Norimberga.

L’India non è l’unico paese asiatico a vivere questo tipo di tensioni. Basta pensare alla Birmania, dove una corrente buddista ha creato la condizioni per la persecuzione dei musulmani rohingya. La leader birmana Aung San Suu Kyi, a cui è stato assegnato un triste premio Nobel per la pace quando resisteva alla dittatura, si trovava di recente all’Aja per difendere il suo paese dall’accusa di genocidio.

I conflitti religiosi coinvolgono altri paesi come il Bangladesh e il Pakistan, stati musulmani che sono regolarmente vittime dell’intolleranza integralista. Nel frattempo, la Cina sta cercando di eradicare la cultura islamica “rieducando” la sua popolazione uigura in grandi campi di detenzione.

In questo contesto l’India avrebbe dovuto dare l’esempio, anziché adottare una politica di esclusione. Narendra Modi, invece, si è assunto il rischio di aprire le porte dell’odio nel suo paese.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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