Nell’ondata di shock seguita all’eliminazione del generale iraniano Soleimani, c’è un paese che si trova nell’occhio del ciclone: l’Iraq. Teatro, venerdì scorso, dell’uccisione del capo della forza Al Qods da parte di un drone statunitense, l’Iraq è un paese che finora ha cercato di trovare un equilibrio tra due alleati particolarmente esigenti come Teheran e Washington. Questo equilibrio è stato rotto dalla crisi attuale. Domenica il parlamento di Bagdad ha votato una risoluzione che chiede la partenza delle truppe straniere, a cominciare dai 5.200 soldati americani che sono ancora nel paese.
Il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi ha personalmente chiesto l’allontanamento degli statunitensi, proprio lui che aveva vissuto in esilio durante l’epoca di Saddam Hussein ed è potuto rientrare in patria soltanto dopo la caduta del dittatore del 2003, provocata dagli stessi soldati che oggi vorrebbe cacciare.
Questo aspetto evidenzia il crollo dell’influenza degli Stati Uniti in Iraq, paese dove gli americani hanno perso 4.500 uomini. Se la richiesta del parlamento sarà eseguita, Donald Trump potrebbe passare alla storia come il presidente che ha “perso” l’Iraq a beneficio del suo nemico giurato, l’Iran.
È evidente che negli ultimi anni Teheran ha sviluppato una grande influenza sull’Iraq, soprattutto organizzando e finanziando le potenti milizie sciite che abbiamo visto all’opera negli ultimi giorni. Ma l’Iraq è anche un paese complesso. Domenica erano presenti soltanto i parlamentari della maggioranza sciita, mentre i deputati curdi e sunniti non hanno partecipato al voto. Un’assenza che la dice lunga sulle fratture della società irachena.
Dopo la fine della dittatura di Saddam Hussein, l’Iraq ha dovuto affrontare una nuova realtà, in cui l’emarginazione dei sunniti ha portato all’emergere del gruppo Stato islamico (Is) mentre i curdi hanno continuato a corteggiare un’indipendenza impossibile.
Tra i corollari dell’omicidio di Soleimani ci sono la decisione dell’Iran di non rispettare più i limiti previsti dall’accordo sul nucleare e le dichiarazioni ostili dei jihadisti dell’Is, felicissimi di questo caos.
Il nuovo conflitto con gli Stati Uniti ha radicalizzato le diverse posizioni e compattato le forze sciite che finora erano apparse divise. La situazione attuale, inoltre, fa passare in secondo piano la rivolta dei giovani (soprattutto sciiti) che avevano criticato l’influenza iraniana. È l’ennesimo paradosso dell’azione voluta da Donald Trump.
L’altra vittima collaterale dell’attacco è sicuramente la lotta contro l’Is in Iraq, guidata dalla coalizione internazionale. La coalizione, di cui fa parte anche la Francia, ha dovuto interrompere le attività, alimentando il rischio di un rafforzamento di ciò che resta dell’organizzazione jihadista, sconfitta l’anno scorso.
48 ore dopo la morte del generale iraniano, gli Stati Uniti sono convinti di aver ripristinato il loro potere di dissuasione, anche se Trump, minacciando domenica di attaccare siti culturali iraniani, si è attirato critiche unanimi.
Tra gli altri corollari dell’omicidio di Soleimani ci sono la decisione dell’Iran di non rispettare più i limiti previsti dall’accordo sul nucleare e le dichiarazioni ostili che arrivano da Beirut, Bagdad, Teheran e dai jihadisti dell’Is, che sicuramente sono felicissimi di questo caos. Il mondo, contrariamente a ciò che afferma Washington, non è affatto diventato più sicuro.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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