Se pensate che l’equazione in Medio Oriente si riassuma in uno scontro tra gli Stati Uniti e l’Iran, vi sbagliate. Dire che in questa regione si gioca il futuro del mondo sarebbe falso, ma di sicuro è in ballo una parte considerevole dei rapporti di forza della nostra epoca, tra potenze grandi e medie.
Come a sancire questa infinita complessità, ecco che Vladimir Putin arriva a Damasco, senza essere annunciato. Il 7 gennaio il presidente russo ha trascorso qualche ora in Siria in compagnia del presidente siriano Bashar al Assad, l’uomo che ha salvato dal disastro al costo di centinaia di migliaia di morti.
Cosa viene a fare Putin in Siria in un momento così carico di tensione? Vuole palesare il ritorno della Russia, dopo cinque anni, al centro della scena mediorientale, approfittando del vuoto creato nel 2013 dagli Stati Uniti con il loro rifiuto di intervenire in Siria.
Intensa lotta per l’influenza
La Russia sfrutta abilmente qualsiasi esitazione o passo falso degli occidentali, che si tratti di Obama e della famosa “linea rossa” sulle armi chimiche, dell’abbandono dei curdi siriani da parte di Trump o delle tensioni tra gli occidentali e la Turchia, dove si trova attualmente Putin.
La Russia potrà approfittare della tensione sull’Iran? Molto probabile, anche perché Mosca e Teheran si sono ritrovate fianco a fianco per salvare il regime di Assad, aiutato in particolare dal generale Qassem Soleimani, l’uomo che gli americani hanno appena ucciso a Baghdad.
Russi, cinesi e iraniani non sono alleati strategici, ma partner che hanno almeno un interesse in comune: indebolire l’influenza degli Stati Uniti
La Russia e la Cina, altra potenza incombente, hanno recentemente eseguito manovre militari comuni con l’Iran. Non è un fatto banale, se pensiamo che gli Stati Uniti hanno deciso di sottoporre Teheran a “pressioni massime”. Mosca e Pechino avrebbero inoltre offerto armi all’Iraq, nell’ipotesi di un cambio di alleanza di questo paese cardine, teatro di un’intensa lotta per l’influenza.
Russi, cinesi e iraniani non sono alleati strategici come all’epoca della fuerra fredda, ma partner che hanno almeno un interesse in comune: indebolire l’influenza degli Stati Uniti. Il meno che si possa dire è che l’assenza di una strategia e i colpi di testa di Trump rischiano di contribuire a questo risultato.
L’esempio della Turchia
Non siamo tornati ai tempi della guerra fredda, perché oggi non esistono più blocchi ideologici. Le potenze medie come la Turchia, l’Iran o l’Arabia Saudita hanno un margine di manovra che in passato non sarebbe mai stato possibile. Inoltre le potenze esterne hanno un’influenza limitata sui regimi, e ancora meno sui popoli.
La Turchia di Erdoğan ne è l’esempio migliore. Membro della Nato, oggi accoglie Putin, che ha venduto al governo di Ankara il suo sistema antimissile. I due presidenti autoritari hanno molti tratti in comune e hanno sviluppato una sorprendente capacità di convivere con le loro divergenze.
Erdoğan ha affermato la sua autonomia inviando le truppe a Tripoli, in Libia, per sostenere il governo minacciato dall’esercito del generale Haftar, sostenuto a sua volta dalla Russia. A Baghdad come ad Ankara, l’oriente complicato sfugge alle analisi troppo semplici. Putin, a quanto pare, è più abile di Trump a gestire la situazione.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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