La gestione autoritaria dell’epidemia di coronavirus da parte della Cina
Dall’inizio dell’epidemia di coronavirus i commenti sulla gestione della crisi da parte del governo cinese sono stati contrastanti: da una parte quelli che ammirano la capacità di Pechino di isolare città con milioni d’abitanti, costruire un ospedale in pochi giorni e mobilitare un numero di volontari impensabile in qualsiasi altra parte del mondo; dall’altra quelli che criticano l’autoritarismo, denunciano l’incuria iniziale che ha permesso al virus di diffondersi e sottolineano la censura che impedisce la circolazione delle informazioni e delle critiche.
Questa separazione riflette la natura della crisi, essenzialmente sanitaria nel resto del mondo ma prettamente politica in Cina.
La massiccia reazione degli internauti cinesi dopo la morte di Li Wenliang, il medico che a Wuhan aveva lanciato l’allarme a dicembre ed era stato ridotto al silenzio quando ancora i casi erano sparuti, dimostra che ormai il potere cinese non può più sbagliare. Il leader supremo Xi Jinping è ormai il comandante in capo di una vera e propria guerra contro il virus, e a pagare per gli errori iniziali sono i quadri locali del partito.
Il rovescio della medaglia autoritaria è la concezione verticale del potere, che si ritrova nel giro di vite repressivo in corso
La quarantena, l’isolamento e il divieto di riunirsi pubblicamente sono tecniche essenziali nella gestione delle epidemie, soprattutto in un paese così popoloso. Dopo l’esperienza della Sars nel 2003, è chiaro che le strutture autoritarie del potere cinese, con la divisione a scacchiera dei quartieri residenziali, facilitano la messa in atto di questi provvedimenti. Con tutti i rischi che ne conseguono in termini di arbitrarietà ed eccessi.
Il rovescio della medaglia autoritaria è la concezione verticale del potere, che produce tragedie come quella di Li Wenliang e si ritrova nel giro di vite repressivo in corso. Il potere è stato colpito dall’ampiezza delle critiche dopo la morte del medico, e ha nuovamente aumentato i controlli.
Oggi due personaggi storici sono messi a tacere in Cina, e la loro sorte dimostra che Pechino non ha alcuna intenzione di accettare le richieste di una maggiore libertà d’espressione scaturite dal decesso del medico di Wuhan.
Il primo è un ex professore universitario di Pechino, Xu Zhangrun, che aveva già perso il posto di lavoro l’anno scorso per aver pubblicato un saggio fuori dal coro. Xu si è ripetuto dopo la morte di Li, ed è stato messo sotto sorveglianza.
Il secondo è un giurista molto famoso, Xu Zhiyong, appena uscito di prigione dopo una condanna a quattro anni per attivismo e nuovamente arrestato nel fine settimana a Canton. Il suo crimine? Aver pubblicato una lettera aperta con cui ha invitato Xi Jinping a dimettersi a causa dei suoi errori. “Non avete permesso che la verità si diffondesse e l’epidemia è diventata un disastro nazionale”, aveva scritto il giurista.
A quanto pare i vecchi riflessi sono duri a morire, e Pechino non intende imparare la lezione della tragedia di Wuhan in materia di trasparenza. Allora forse è il caso di riflettere prima di tessere le lodi dell’autoritarismo cinese nella lotta contro l’epidemia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)