Il ritorno delle frontiere nell’Unione europea
Il simbolismo è molto forte. A partire dal 17 marzo l’Europa, diventata l’epicentro della pandemia di Covid-19, chiuderà le sue frontiere esterne per trenta giorni.
Il provvedimento, senza precedenti, è piuttosto paradossale, perché in realtà è il resto del mondo a non fidarsi degli europei, e in piena epidemia continua a chiudere le porte a chi proviene dal vecchio continente. Attualmente, per esempio, cento paesi si rifiutano di far entrare i francesi. In ogni caso la misura dimostra fino a che punto il problema delle frontiere è cruciale e difficile da risolvere.
La decisione dei 27 stati europei appare tanto più complessa se pensiamo che negli ultimi giorni le chiusure delle frontiere si sono moltiplicate anche all’interno dell’Unione e perfino nello spazio Schengen, che comprende 22 nazioni.
La chiusura inefficace
Le decisioni sono state unilaterali (dunque vietate dai trattati) e hanno isolato interi paesi dagli stati vicini, come la Slovacchia o, nella giornata del 16 marzo, la Spagna. La Germania ha deciso di filtrare i veicoli provenienti dalla Francia, tanto che il 13 marzo l’entourage di Emmanuel Macron si lamentava di una “risposta disordinata”.
Nel mese di febbraio, quando il numero dei casi in Europa ha fatto registrare una prima impennata, la chiusura delle frontiere era stata chiesta da alcune forze politiche che fanno di questo tema un cavallo di battaglia, come il Rassemblement national di Marine Le Pen in Francia.
L’Italia è stata il primo paese europeo a interrompere i collegamenti aerei con la Cina, ma questo non le ha impedito di diventare lo stato più colpito in Europa
Tuttavia gli esperti sanitari, al livello nazionale e all’interno dell’Organizzazione mondiale della sanità, ritengono che si tratti di una misura inefficace, anche perché il virus si è già diffuso. L’Italia è stata il primo paese europeo a interrompere i collegamenti aerei con la Cina, ma questo non le ha impedito di diventare lo stato più colpito in Europa.
Se questa manovra non ha funzionato tre settimane fa, perché mai dovrebbe funzionare oggi? È davvero una misura legata alla sanità pubblica? O si tratta piuttosto di una mossa psicologica per calmare una popolazione spaventata da un “nemico invisibile” che supera facilmente le frontiere?
I leader politici non lo ammetteranno mai, ma la chiusura delle frontiere esterne avrà un impatto molto ridotto nella lotta contro la pandemia.
In questo contesto convivono due elementi, come ha sottolineato l’eurodeputato Pascal Canfin, presidente della Commissione per la sanità pubblica del parlamento europeo: “Non bisogna trasformare la questione in un totem che i populisti brandirebbero per alimentare il nazionalismo, ma neanche in un tabù imponendo limitazioni ovunque tranne che alle frontiere”.
Tra barricate interne unilaterali e fortificazione coordinata dei confini esterni, l’Europa ha nuovamente messo in pausa il sogno di una comunità senza confini che era stato di Jacques Delors.
“La storia dell’Europa è la storia della trasformazione di linee del fronte in frontiere pacifiche”, ha sottolineato il geografo francese Michel Foucher. È bastato un virus per far tornare il vecchio riflesso di alzare il ponte levatoio davanti al nemico. Ormai è chiaro che una volta sconfitta la malattia sarà difficile resuscitare il vecchio spirito di Schengen e della libera circolazione. Il simbolismo delle frontiere è duro a morire.
(Traduzione di Andrea Sparacino)