La storia, probabilmente, ricorderà questi giorni di marzo in cui la Cina è corsa in aiuto dell’Europa. La settimana scorsa è toccato all’Italia, mentre il 18 marzo Pechino ha inviato un milione di mascherine in Francia, dove esiste un rischio di carenze.
Un gesto simbolico da parte di un paese che è diventato una grande potenza e lo dimostra nello stesso modo in cui noi, potenze del mondo di ieri, facevamo in passato, attraverso gli aiuti umanitari. In questa vicenda emerge, al di là del simbolismo, il riflesso di un nuovo rapporto di forze internazionale.
Colpita per prima dall’epidemia, la Cina ne è anche uscita prima di tutti gli altri, mentre il resto del mondo veniva contaminato con grande rapidità. Questa cronologia, paradossalmente, ha regalato alla Cina (di cui poche settimane fa si parlava con la compassione riservata a un malato) una grande fiducia in se stessa, che ora si manifesta sulla scena mondiale.
Il doppio volto
Il 18 marzo la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha elogiato il comportamento di Pechino, pur ricordando che all’inizio dell’anno l’Europa aveva inviato cinquanta tonnellate di materiale per aiutare il paese asiatico. In ogni caso è evidente che i ruoli, se non proprio invertiti, si sono quantomeno riequilibrati.
Il risultato è che in questo momento la Cina mostra un doppio volto. Il primo è quello sorridente di un paese che invia aiuti medici nel centro dell’epidemia, non solo in Francia ma anche nei Balcani, in Iran o in Africa. Questo aiuto è chiaramente ben accetto in un momento in cui i sistemi sanitari nazionali sono tutti sottoposti a un enorme stress.
Sono stato corrispondente da Pechino nei primi anni duemila, e all’epoca la Cina era più aperta rispetto a oggi
L’altro volto è quello di un regime autoritario che ha appena superato una prova sanitaria ma anche politica, e che ora si sente più forte. Lo vediamo nella competizione appena dissimulata tra gli Stati Uniti e la Cina, che non conosce tregua.
All’inizio della settimana Pechino ha espulso tutti i corrispondenti statunitensi di tre grandi quotidiani come il New York Times, il Washington Post e il Wall Street Journal. È una decisione senza precedenti, che chiude ulteriormente un paese dove il lavoro dei giornalisti è diventato più difficile. Sono stato corrispondente da Pechino nei primi anni duemila, e all’epoca la Cina era più aperta rispetto a oggi.
Malgrado il coronavirus i rapporti sino-americani hanno continuato a deteriorarsi, con espulsioni di giornalisti in entrambi i paesi.
Donald Trump, con la sua solita raffinatezza, si è preoccupato di definire il Covid-19 “un virus cinese”, suscitando la rabbia e le proteste di Pechino, inutili, dato che il presidente ha ribadito il concetto nella giornata del 18 marzo. Il governo cinese ha fatto ricorso ai potenti organi della propaganda per insinuare che il virus provenga proprio dagli Stati Uniti.
Tutto questo non è all’altezza della crisi sanitaria che il pianeta intero dovrebbe affrontare in modo solidale, e nemmeno della posta in gioco del mondo del futuro, in cui la Cina sarà inevitabilmente protagonista della ricostruzione.
Ma quale Cina? Quella che tende la mano agli altri paesi o quella che espelle i giornalisti e imprigiona i dissidenti? A meno che non si tratti di due facce dello stesso paese…
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it