La Corte penale internazionale nel mirino di Washington
Per quanto possa essere difficile crederlo, l’11 giugno Donald Trump ha firmato un decreto presidenziale che permette di imporre sanzioni economiche ai funzionari della Corte penale internazionale(Cpi), che ha sede all’Aja. Trump ha reagito in questo modo all’annuncio da parte del tribunale di un’inchiesta sui possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dagli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan.
Nessun paese gradisce imputazioni così gravi, in cima alla gerarchia delle violazioni delle regole di guerra. Tuttavia ritenersi al di sopra di qualsiasi legge internazionale e di qualsiasi sospetto è un segno evidente di arroganza. Significa pensare che la giustizia riguarda altri.
I vertici dell’amministrazione Trump hanno perso le staffe dopo che a marzo la Cpi ha autorizzato il suo procuratore a indagare su eventuali crimini commessi dai soldati statunitensi e dalla Cia in Afghanistan e nei centri di interrogatorio segreti a partire dal 2003. Il tribunale ritiene che esistano prove sufficienti per portare avanti questa inchiesta senza precedenti.
La collera di Washington si è trasformata in una serie di misure contro diversi funzionari della Cpi, tra cui la procuratrice generale, la giurista gambiana Fatou Bensouda.
Se le maggiori potenze mondiali rifiutano di sottomettersi a un unico giudizio, perché i paesi più deboli dovrebbero farlo?
Per comprendere la reazione americana bisogna tornare indietro nel tempo. La Cpi è il risultato di un lungo processo per realizzare il sogno di una giustizia internazionale. Alla fine della seconda guerra mondiale, i processi di Norimberga e Tokyo avevano giudicato i responsabili dei crimini commessi dalla Germania nazista e dell’impero nipponico, ma in quel caso si era trattato della giustizia dei vincitori.
Dopo la guerra fredda sono nati tribunali ad hoc per giudicare i crimini commessi nell’ex Jugoslavia o durante i genocidi in Ruanda e Cambogia. L’idea di un tribunale permanente è stata finalmente concretizzata nel 2002, con la firma di un trattato a Roma e con l’obiettivo di mettere fine all’impunità dei carnefici. È stata la versione giuridica del “mai più”.
Fin dall’inizio, però, dal documento mancavano alcune firme. Stati Uniti, Russia, Cina e Israele non avevano intenzione di accettare la regola di fondo, e hanno creato un fronte di opposizione che accomuna democrazie e regimi autoritari.
Le sanzioni di Washington indeboliscono ulteriormente la giustizia internazionale. D’altronde se le maggiori potenze mondiali rifiutano di sottomettersi a un unico giudizio, perché i paesi più deboli dovrebbero accettarlo?
Fin dalla sua nascita, la Corte penale internazionale ha giudicato soprattutto signori della guerra africani, al punto tale che i paesi del continente hanno cominciato a contestarne la legittimità. La Cpi stava ancora cercando di trovare un suo equilibrio quando è andata a sbattere contro il doppio scoglio americano e israeliano. L’offensiva dell’amministrazione Trump, infatti, è stata coordinata con Israele, paese che nutre forti riserve sulle ingerenze della Corte nel conflitto con i palestinesi.
La decisione dell’11 giugno rappresenta l’ennesima spallata di Trump al multilateralismo, ma soprattutto un affronto insopportabile da parte di una superpotenza che si crede intoccabile. Così si rischia di spazzare via il vecchio sogno di una giustizia internazionale come arma di dissuasione contro i criminali di guerra.
(Traduzione di Andrea Sparacino)