I 330 studenti rapiti in Nigeria sono il simbolo di uno stato fallito
In lingua locale il nome di Boko haram, il gruppo jihadista che ha rivendicato il rapimento di almeno 330 liceali nel nordovest della Nigeria, significa “l’educazione occidentale è un peccato”. Questo però non basta a spiegare perché l’organizzazione (se davvero ne è responsabile) abbia preso di mira uno studentato dello stato di Katsina, molto lontano dalla sua zona di influenza che è rintracciabile per lo più nella Nigeria nordorientale.
A rivendicare il gesto è stato Abubakar Shekau, il leader di Boko haram che nel 2015 ha giurato fedeltà al gruppo Stato islamico. Parlando del centinaio di uomini armati che in sella alle motociclette hanno attaccato il pensionato durante la notte, seminando il panico e prendendo in ostaggio gli studenti, Shekau li ha definiti “fratelli” ed esponenti della sfera estremista islamica.
Ma la situazione nel nord della Nigeria è abbastanza confusa, ed è possibile che la realtà sia più complessa. I jihadisti di Boko haram non hanno il monopolio della violenza. Oltre ad altri gruppi terroristici, ha sottolineato un recente rapporto dell’International crisis group di Bruxelles, in Nigeria esiste un banditismo diffuso, praticato spesso a contatto con i jihadisti, compreso un commercio di ostaggi che rende molto difficile identificare i reali autori di azioni come il sequestro degli studenti nel Katsina.
Fallimento statale
Paese più popoloso d’Africa, la Nigeria è nuovamente sprofondata nel dramma che aveva già vissuto nel 2014 con il rapimento delle 276 studenti di Chibok compiuto da Boko haram. Quella vicenda aveva fatto il giro del mondo e dei social network, con l’hashtag “bringbackourgirls”, riportate a casa le nostre ragazze.
Paradossalmente la risonanza mondiale del rapimento di Chibok potrebbe aver ispirato i rapitori di oggi: colpiscono lo spirito, terrorizzano le famiglie e, realizzando la loro azione in un’altra regione, mettono il governo nigeriano davanti al proprio fallimento.
Gli esperti concordano che non si possa parlare della violenza di Boko haram tacendo su quella delle forze armate nigeriane
Boko haram è emerso circa vent’anni fa nel nordest del paese, nella regione limitrofa al lago Ciad, al confine con il Ciad e il Camerun. Da allora l’organizzazione si è radicalizzata e ha sconfinato ripetutamente nei paesi vicini, com’è successo qualche giorno fa in Niger, dove l’incursione ha provocato 28 morti, tutti civili.
Oltre a imporsi con il terrore, Boko haram si nutre anche dei fallimenti del potere. È in questo aspetto che sta tutta la difficoltà della lotta contro un movimento simile.
Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari, è un ex dittatore militare degli anni ottanta che si è fatto eleggere democraticamente nel 2015 promettendo di porre fine all’insicurezza permanente e alla corruzione rampante nel paese. Ma non basta essere un ex generale per risolvere tutti i problemi. Buhari non ha saputo nemmeno ripulire e disciplinare le forze armate.
Tutti gli esperti della zona concordano sul fatto che non si possa parlare della violenza di Boko haram senza citare quella delle forze armate nigeriane. Ne abbiamo avuto un esempio recentemente con le manifestazioni, represse nel sangue, organizzate per protestare contro una unità anticorruzione accusata di praticare estorsioni e di agire impunemente.
Da tempo la Nigeria vive degli introiti petroliferi, e la corruzione è stata uno strumento di redistribuzione come un altro. Ma l’assenza di uno stato degno di questo nome rende milioni di nigeriani indifesi davanti ai terroristi senza scrupoli. I 330 liceali sequestrati nel Katsina sono il simbolo di questa impotenza generalizzata.
(Traduzione di Andrea Sparacino)