Se volessimo scegliere una potenza simbolo del 2020 la scelta cadrebbe inevitabilmente sulla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, e non certo per il suo contributo alla pacificazione delle tensioni nel mondo. La Turchia, al contrario, si è distinta per la sua audacia strategica, che l’ha resa una potenza capace di operare su più fronti simultaneamente.
Il presidente turco ha dimostrato di non aver paura di provocare quegli alleati – o rivali, ormai non possiamo più dirlo con certezza – che in linea di principio dovrebbero essere più potenti della Turchia, che si tratti dell’Europa, della Russia e in una certa misura anche degli Stati Uniti. Nel frattempo Erdoğan ha continuato a rafforzare il suo controllo politico e autoritario sulla società turca, che ogni giorno si allontana un po’ di più dalla democrazia e dallo stato di diritto.
Il 27 dicembre il parlamento turco, controllato a maggioranza dal partito di Erdoğan (il Partito della giustizia e dello sviluppo, Akp), ha votato una legge che in teoria dovrebbe servire a combattere il terrorismo, ma che all’atto pratico limita ulteriormente la libertà delle ong e della società civile. Secondo il direttore della sezione turca di Amnesty international il governo si concede il diritto di vita e di morte sulle ong turche o internazionali che lavorano nel paese.
Il presidente turco gioca al gatto e il topo con l’Europa, che ritiene incapace di imporsi a causa delle sue divisioni
Erdoğan, definito da molti un islamo-conservatore, ha individuato nel caos degli ultimi anni un’occasione strategica per accrescere l’influenza della Turchia, una manovra che a molti sembra un tentativo di tornare alla grandezza dell’impero ottomano, scomparso un secolo fa.
Ankara ha messo in atto operazioni militari nel nord della Siria, in Libia, nel Mediterraneo orientale e nel conflitto tra l’Azerbaigian e l’Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh. In quest’ultimo caso a fare la differenza sono stati i droni armati e le cosiddette “munizioni vaganti” di provenienza turca, che hanno permesso all’Azerbaigian di ottenere una vittoria decisiva. Di recente il presidente turco ha visitato Baku per una parata celebrativa.
La settimana scorsa il ministro della difesa turco si è recato in Libia per raccogliere la sfida lanciata dal maresciallo Khalifa Haftar, il capo militare che controlla l’area orientale del paese e che aveva invitato i suoi sostenitori a imbracciare le armi per opporsi “all’occupazione turca”. L’emissario di Erdoğan ha definito Haftar un “criminale di guerra” e gli ha raccomandato di non sfidare l’esercito turco.
Chi potrà fermare la Turchia? Erdoğan rispetta i rapporti di forza. Quando la Russia ha deciso di mettere fine alla guerra nel Caucaso, per esempio, Ankara e Baku sono rientrate nei ranghi. Al contempo il presidente turco gioca al gatto e il topo con l’Europa, che ritiene incapace di imporsi a causa delle sue divisioni, della paura dell’immigrazione e di quello che Erdoğan considera un declino generale del vecchio continente.
L’unica potenza a cui la Turchia si piega è la Cina. Qualche anno fa Erdoğan aveva denunciato il trattamento riservato agli uiguri turcofoni nell’ovest del paese definendolo un “genocidio”. Oggi però tace, in cambio di vantaggi economici.
Restano gli Stati Uniti. In passato Erdoğan ha saputo ingraziarsi Donald Trump, anche se alla fine l’acquisto di armi russe gli è valso una serie di sanzioni da parte degli Stati Uniti. Una delle incognite del 2021 riguarda l’orientamento dell’amministrazione Biden rispetto a un alleato turco diventato un elettrone libero deciso a fare i propri interessi. Per Erdoğan potrebbe essere vicina l’ora della verità in cui verificare le ambizioni della Turchia come potenza emergente.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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