Il sangue scorre in Birmania. Almeno venti morti, 26 secondo alcune fonti, e un migliaio di feriti. Manifestanti pacifici uccisi quando le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco con proiettili veri in diverse città del paese. È il bilancio più grave da quando i birmani sono scesi in piazza in massa per chiedere il ritorno della democrazia e la liberazione di Aung San Suu Kyi.

Questa escalation era prevedibile nella misura in cui l’esercito, che ha preso il potere il 1 febbraio, non è riuscito a convincere la popolazione a smettere di protestare. Di conseguenza la repressione si è intensificata.

Le immagini che circolano sui social network sono impressionanti. Alcuni video amatoriali girati in diverse città mostrano il momento in cui sono partiti i primi colpi di arma da fuoco e ci sono state le prime vittime.

Richiesta compatta
Una foto simbolo ritrae una suora cattolica dell’ordine di san Francesco Saverio, Nu Thawng, inginocchiata davanti a un cordone di agenti armati, mentre li implora di non aprire il fuoco. Il cardinale di Rangoon, monsignor Charles Bo, ha pubblicato l’immagine su Twitter. In Birmania i cattolici rappresentano appena l’1 per cento della popolazione, e spesso sono stati perseguitati, ma oggi i birmani sono compatti nel chiedere l’uscita di scena dei militari.

Su internet circola una domanda comune tra i birmani: “Quanti morti ci vorranno prima che l’Onu intervenga?”. La risposta, purtroppo, non dipende dal numero di morti, ma dall’impossibile consenso tra i detentori del diritto di veto, tra cui due paesi come la Cina e la Russia che mantengono legami stretti con la giunta militare birmana.

Joe Biden ha indicato i diritti umani come priorità diplomatica

Il 26 febbraio, nella sede dell’Onu, si è verificato un evento eccezionale. L’ambasciatore birmano U Kyaw Moe Tun ha preso la parola per reclamare un’azione internazionale “con qualsiasi mezzo necessario” per ristabilire la democrazia. L’ambasciatore è stato immediatamente sollevato dall’incarico dalla giunta militare, che lo ha accusato di tradimento.

La “battaglia dell’Onu” non è terminata. Gli Stati Uniti, a partire dal 1 marzo e per il prossimo mese, hanno la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza. Il 1 marzo è anche il primo giorno del mandato di Linda Thomas-Greenfield, la nuova ambasciatrice scelta da Joe Biden, che ha appena ottenuto la nomina da parte del senato. Biden ha indicato i diritti umani come priorità diplomatica, e la crisi birmana lo obbliga ad agire.

Ma la potenza più influente in Birmania resta la Cina. Nessuna pressione sarà efficace senza il sostegno di Pechino. Di contro, se esercitasse il diritto di veto il suo peso risulterebbe rafforzato. In un clima deleterio tra statunitensi e cinesi, un’intesa per trovare una via d’uscita onorevole in Birmania sembra molto difficile.

I birmani che manifestano da un mese si illudono su un possibile intervento occidentale in loro favore.

L’Europa e gli Stati Uniti hanno annunciato l’imposizione di sanzioni che nel migliore dei casi saranno un mezzo per manifestare la propria disapprovazione, senza però avere un risultato immediato. La sorte del conflitto in Birmania è nelle mani della popolazione locale, in un vicolo cieco che rischia di trasformarsi in un massacro.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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