Alla fine della settimana scorsa Joe Biden ha tenuto una conferenza stampa sulla creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti, proprio nel momento in cui le truppe americane lasciavano la grande base aerea di Bagram, nei pressi di Kabul. In quell’occasione un giornalista gli ha rivolto una domanda sull’Afghanistan: “Vorrei parlare di cose più felici”, ha svicolato il presidente.
L’Afghanistan non fa sicuramente parte delle “cose felici” per gli Stati Uniti. La cronaca di un disastro annunciato resterà legata al nome di Biden, anche se l’attuale presidente non ha fatto altro che confermare, o meglio accelerare, il processo di ritiro militare avviato dal suo predecessore Donald Trump dopo vent’anni di una guerra impossibile da vincere.
Come previsto, in assenza di qualsiasi accordo politico inter-afgano, il ritiro ha rafforzato enormemente i taliban, il cui territorio si espande ogni giorno di più. Il 5 luglio più di mille soldati dell’esercito nazionale afgano si sono rifugiati nel vicino Tagikistan, mentre altre guarnigioni si sono arrese senza combattere. I taliban sono sul punto di realizzare uno dei grandi insegnamenti dello stratega cinese Sun Tzu: le vittorie migliori sono quelle ottenute senza combattere, in cui basta la paura.
Il ricordo del Vietnam
Prima di tutto si tratta di una sconfitta per gli afgani, a cominciare dalle donne sulle quali incombe la minaccia di un ritorno dell’oscurantismo patito quando i taliban erano al potere negli anni novanta.
Ma è innegabile che la sconfitta sia anche degli Stati Uniti. Dopo vent’anni di presenza nel paese, infatti, gli americani partono senza aver minimamente raggiunto gli obiettivi prefissati, e perfino quello di tenere a distanza i jihadisti di al Qaeda è tutto fuorché assicurato, stando alle informazioni che provengono dal nord del paese.
Gli americani ne hanno abbastanza delle “guerre senza fine” e Biden incarna bene questo sentimento condiviso
La superpotenza statunitense è stata messa in scacco da uomini che non hanno un millesimo della potenza di fuoco del più grande esercito del mondo. Questa situazione ricorda il Vietnam, il grande trauma degli anni settanta. In quel caso gli Stati Uniti impiegarono parecchio tempo per riprendersi. L’immagine degli elicotteri che decollano in fretta e furia dal tetto dell’ambasciata di Saigon resta un ricordo umiliante.
È possibile che la sconfitta afgana lasci le stesse tracce? Gli Stati Uniti nel frattempo sono cambiati, e anche il resto del mondo. Gli americani ne hanno abbastanza delle “guerre senza fine” in Iraq e Afghanistan, e Biden incarna bene questo sentimento condiviso.
Ma davvero Washington è pronta ad accettare le conseguenze della sua decisione se i taliban, com’è probabile, riprenderanno in mano il potere o se il paese sprofonderà nuovamente in una guerra civile?
Come farà Biden a ristabilire la credibilità della protezione statunitense? Il “comandante in capo” che abbandona l’Afghanistan volerà in soccorso di Taiwan o dell’Ucraina se i due alleati degli Stati Uniti si trovassero in pericolo? È una domanda che si porranno sicuramente i leader dei paesi in questione, per parlare solo di due casi emblematici, e quelli dei paesi che rappresentano una minaccia, Russia e Cina, già convinti del declino dell’occidente.
Kabul 2021 non è Saigon 1975, ma le due situazioni hanno in comune i limiti della potenza militare americana e dunque del peso reale degli Stati Uniti nei rapporti di forza a livello internazionale.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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