Un mese e mezzo dopo la caduta di Kabul in mano ai taliban, l’Afghanistan è ancora in sospeso, senza riconoscimento internazionale dei nuovi padroni, sull’orlo di un colossale disastro umanitario e con una diffusa sensazione di impotenza internazionale davanti alla catastrofe annunciata.
Il 3 ottobre l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera Josep Borrell ha lanciato un allarme: “L’Afghanistan è alle prese con una grande crisi umanitaria e con la minaccia di un tracollo socioeconomico che sarebbe pericoloso per gli afgani, per la regione e per la sicurezza internazionale. Il problema non è stabilire se abbiamo bisogno di una presenza minima dell’Unione sul posto, ma quando e come”.
Il presidente francese Emmanuel Macron, come la maggior parte dei leader mondiali, si oppone fermamente al riconoscimento diplomatico dell’emirato islamico che i taliban hanno proclamato al posto della Repubblica d’Afghanistan, e lo ha ribadito in un’intervista diffusa il 28 settembre su radio France Inter. Si tratta di una posizione al contempo politica ed etica davanti al tragico destino delle donne e al passo indietro sul rispetto dei diritti umani. Tuttavia il rifiuto non risolve tutti i problemi.
Fondi congelati
Come aiutare gli afgani senza aiutare il nuovo regime? O meglio, in termini ancora più brutali, come evitare che la popolazione paghi per gli errori (per non dire il tradimento) degli occidentali?
A breve termine la soluzione passa attraverso l’azione umanitaria ed essenzialmente per il canale delle Nazioni Unite, in un contesto in cui esistono milioni di rifugiati, sfollati e persone in situazione precaria. Attualmente, secondo l’Onu, un afgano su due ha bisogno di aiuto. L’Europa ha considerevolmente incrementato il suo contributo finanziario, circa 677 milioni di euro tra l’Unione e gli stati membri. Ma allo stesso tempo gli aiuti per lo sviluppo si sono arrestati, nove miliardi di dollari di fondi afgani nelle banche estere sono stati congelati e l’aiuto finanziario che durante gli anni della guerra ha coperto i due terzi del budget afgano non esiste più.
I taliban sono fondamentalisti religiosi poco inclini al compromesso
L’accesso a questi fondi è sostanzialmente l’unica risorsa di cui la comunità internazionale dispone per cercare di influenzare i taliban, la cui ala più oltranzista sta dettando l’agenda e smentisce gli impegni presi in precedenza in merito alla creazione di un governo inclusivo, al ruolo delle donne, al rispetto delle minoranze e alla libertà di lasciare il paese.
Società cambiata
I taliban sono fondamentalisti religiosi poco inclini al compromesso, come dimostrano il loro primo regno e le prime settimane dopo il ritorno a Kabul. Ma oggi il regime deve gestire una società che è cambiata, oltre a un ambiente regionale e internazionale diverso. Inevitabilmente dovrà tenerne conto.
È significativo che perfino il Qatar, paese che ha giocato il ruolo di intermediario con i taliban, abbia espresso pubblicamente la sua delusione per l’esclusione delle ragazze dal sistema scolastico. Intanto la Cina e la Russia restano presenti nel paese, ma mantengono un atteggiamento prudente.
La verità, in ogni caso, è che il sentimento dominante è quello dell’impotenza davanti ai vincitori di questa guerra, su cui le pressioni internazionali non sembrano avere alcun effetto, soprattutto quelle di chi li ha combattuti a lungo. Questa è la triste realtà per gli afgani e soprattutto le afgane che ancora si trovano nel paese: bisogna fare di tutto per aiutarli, ma non potremo mai cambiare la natura di un regime che non è stato possibile neutralizzare nemmeno con vent’anni di guerra.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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