Le serie televisive sono ormai diventate “oggetti” geopolitici, perché ci raccontano il mondo ma anche perché sono una componente del soft power, la capacità degli stati di persuadere e di esercitare influenza culturale senza usare la forza.
Squid game ha tutto ciò che serve per trovare spazio in una rubrica geopolitica. Per chi non lo sapesse, la serie sudcoreana ha battuto il record per il miglior esordio sulla piattaforma Netflix, con oltre cento milioni di case raggiunte in tutto il mondo in meno di un mese. Meglio di La casa di carta o Lupin, altri due successi non statunitensi prodotti da Netflix.
Il fenomeno è interessante prima di tutto per ciò che Squid game racconta della nostra epoca, ma anche perché la Corea del Sud e i suoi 50 milioni di abitanti hanno sviluppato industrie culturali dall’impatto planetario, dal K-pop al marketing aggressivo e al cinema d’autore, premiato con la palma d’oro a Cannes nel 2019 per il film Parasite.
Questo “gioco del calamaro” è crudele e violento. La serie mette in scena personaggi indebitati che partecipano a un gioco il cui esito è semplice: si vince o si muore. Alcuni vi hanno visto una critica del capitalismo selvaggio o una denuncia delle disuguaglianze molto forti in Corea del Sud, paese un tempo povero che ha vissuto un formidabile sviluppo economico.
La Corea del Sud ha un impatto smisurato rispetto alle sue dimensioni
Squid game è anche un invito a superarsi. Certo, i concorrenti gareggiano gli uni contro gli altri, ma soprattutto contro se stessi e i propri limiti. Visto il successo della serie, saranno sicuramente pubblicati numerosi studi per analizzarne il senso, la percezione che ne hanno i giovani (che sarà inevitabilmente diversa da quella degli adulti) e l’estetica.
Ma quello di Squid game è anche un successo non scontato, perché il creatore della serie, Hwang Dong-hyuk, non era riuscito a trovare finanziamenti locali prima di convincere Netflix, e ha conquistato il grande pubblico grazie a un passaparola virale. Siamo davanti a un incontro tra la capacità sudcoreana di raccontare storie dalla portata universale e la forza di Netflix. Un doppio soft power, insomma.
La Corea del Sud ha vissuto la dittatura prima della democratizzazione e del boom economico che l’ha portata a diventare l’undicesima potenza mondiale. Nel 1997, all’epoca della crisi finanziaria asiatica, il governo decise di investire in massa nelle industrie culturali, una scelta che si è rivelata vincente. Oggi la Corea del Sud è il paese più connesso al mondo, e questo le concede un vantaggio nell’epoca digitale, come ha spiegato il 13 ottobre Angeliki Katsarou nel numero speciale della rivista Asia Trends dedicato alla Corea del Sud.
Il paese ha un impatto smisurato rispetto alle sue dimensioni, cosa che lo rende un gigante del soft power rispetto alla vicina Cina, potenza economica che tuttavia è incapace, a causa della sua rigidità politica, di rivaleggiare in termini di impatto delle industrie culturali. Un aspetto particolarmente evidente in questo momento segnato dall’azione aggressiva del regime cinese, che per esempio vieta la comparsa in tv degli uomini giudicati troppo “effeminati”.
La Corea del Sud, al centro di un’area geopoliticamente delicata, ha saputo trovare la ricetta di una cultura nazionale che sa parlare al resto del mondo. È una risorsa considerevole in questo ventunesimo secolo. Squid game lascia presagire altri successi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it