L’Europa resta immobile dopo il dramma dei migranti nella Manica
La morte di 27 migranti nella Manica ha creato un trauma: l’ennesimo, saremmo tentati di dire senza cinismo. La settimana scorsa 75 migranti avevano perso la vita nel Mediterraneo dopo essere partiti dalla Libia a bordo di un barcone sovraffollato, portando a 1.300 il numero di morti dall’inizio dell’anno. Il tutto nell’indifferenza più assoluta. Due settimane fa, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, altri migranti, strumentalizzati dal dittatore di Minsk, sono stati sballottati da una parte all’altra del confine, e alcuni sono morti in quella terra di nessuno congelata.
L’unica conclusione che si possa trarre da queste tragedie che si ripetono in quasi tutte le frontiere esterne dell’Europa è che noi, abitanti della potente e ricca Europa (Regno Unito compreso, per una volta) non abbiamo ancora una risposta al problema. Eppure è da anni che questo dramma coinvolge l’Europa, dai naufragi di Lampedusa ai campi profughi simili a prigioni di Samos, in Grecia, dalle alte barriere dell’enclave spagnola di Ceuta all’indegna giungla francese di Calais.
I motivi di questa impasse non mancano: timore di un ritorno dei venti populisti, differenze di vedute tra i vari paesi europei, egoismi nazionali o semplicemente paura dell’”altro”.
Solidarietà a breve termine
Il caso particolare degli afgani evidenzia tutte le nostre contraddizioni. In occasione della caduta di Kabul in mano ai taliban, con immagini apocalittiche che arrivavano dall’aeroporto, tutti erano d’accordo sulla necessità di aiutare il maggior numero di persone a partire. La mobilitazione delle amministrazioni comunali, delle associazioni e dei singoli cittadini ha permesso di accogliere dignitosamente migliaia di afgani che erano riusciti a salire a bordo di un aereo. Ma molte afgane e afgani appartenenti ad altri ceti sociali, arrivati con altri mezzi, non hanno ricevuto lo stesso trattamento.
L’argomento sarà uno dei più difficili per la presidenza francese dell’Unione europea nel primo semestre del 2022
Per qualche giorno, ma solo per qualche giorno, lo slancio per aiutare i profughi afgani ci ha ricordato la fine degli anni settanta, quando la Francia accolse 120mila boat people dal Vietnam in fuga dalla vittoria comunista dopo una mobilitazione da parte degli intellettuali di ogni orientamento, da destra a sinistra, compresi i fratelli-nemici della filosofia francese Raymond Aron e Jean-Paul Sartre. Uno scenario simile oggi è impensabile, perché il momento è segnato da un dibattito deleterio sul tema e dai muri, reali e mentali.
L’argomento sarà uno dei più difficili per la presidenza francese dell’Unione europea, nel primo semestre del 2022, con la riforma delle politiche europee sull’immigrazione e l’asilo. La Commissione europea ha avanzato alcune proposte, ma il dialogo è paralizzato dalle divisioni tra gli stati, e non solo a est del continente. La Danimarca, pur guidata dai socialdemocratici, presenta per esempio una delle politiche migratorie più restrittive del continente.
Qualche giorno fa uno degli osservatori più acuti di questo dibattito, il politologo bulgaro Ivan Krastev, sottolineava che i politici europei “si sentono incapaci di aiutare chi vuole più democrazia nel proprio paese e temono l’arrivo dei migranti”.
Con una punta d’ironia amara, Krastev ha aggiunto che “Bruxelles ha paura delle stesse cose che determinano la sua forza di attrazione. Una volta l’Europa si faceva forte dell’idea che molte persone nel mondo volessero vivere come i suoi cittadini. Oggi questa idea la spaventa”. È un paradosso su cui meditare, in attesa che arrivi la prossima tragedia.
(Traduzione di Andrea Sparacino)