Il 30 novembre si chiude a Dakar un vertice tra Africa e Cina, diventata in due decenni il primo partner economico del continente. Al contempo la Commissione europea fa trapelare l’ammontare degli investimenti dedicati a progetti infrastrutturali nei paesi in via di sviluppo: 300 miliardi di euro, evidentemente destinati a contrastare l’influenza cinese.
Infine il segretario di stato americano Antony Blinken è appena rientrato da un viaggio in Africa che segna il ritorno degli Stati Uniti in un continente ignorato durante il mandato di Donald Trump.
A questo quadro bisogna aggiungere la Russia, che muove i suoi pedoni nel campo della sicurezza, soprattutto con i mercenari del gruppo Wagner in Africa centrale e nel Sahel; la Turchia, il cui presidente Recep Tayyip Erdoğan si trovava in Africa il mese scorso; e ancora India, Giappone, Iran e i paesi del golfo.
Contrastare la Cina
Oggi, insomma, non esiste potenza media o grande che non si interessi all’Africa. All’origine di questa attenzione ci sono motivi più o meno encomiabili.
Nell’ultimo decennio la Cina ha occupato un posto centrale nel continente, attraverso la sua politica di costruzione di infrastrutture e di enormi investimenti: le ferrovie Nairobi-Mombasa, Addis Abeba-Gibuti e Lagos-Ibadan, ma anche strade, stadi e così via.
L’Africa continua a considerare la Cina un modello di sviluppo più efficace di quello occidentale
La controffensiva occidentale in Africa si basa soprattutto sulla volontà di contrastare la Cina. L’Africa e i suoi 55 stati sono un’importante tassello del gioco di influenze globale, per non parlare dei voti all’Onu o dell’accesso alle materie prime. La Francia e l’Europa, nonostante il loro svantaggio derivato dall’epoca coloniale, aggiungono per ragioni geografiche la necessità di un futuro comune per affrontare le sfide demografiche e migratorie, ma anche quelle dello sviluppo e del clima.
Anche la Cina ha le sue sfide da affrontare, a cominciare dalla “perdita dell’illusione” da parte degli africani, come l’ha definita il ricercatore francese Thierry Pairault sulla rivista Jeune Afrique. Questa disaffezione è dovuta alle promesse non mantenute e agli scandali di corruzione, come quello appena scoppiato in Repubblica Democratica del Congo grazie alle rivelazioni del progetto Congo Hold-up sulle appropriazioni indebite dell’epoca Kabila.
Eppure l’Africa continua a considerare la Cina come modello di sviluppo più efficace rispetto a quello degli occidentali, tra l’altro meno esigente sul tema dei diritti e della gestione del governo.
I paesi africani cominciano a comprendere il vantaggio che possono ottenere da questo corteggiamento da parte delle potenze concorrenti: la possibilità di emanciparsi dalla dipendenza da un solo partner.
Blinken, capo della diplomazia americana, si è preoccupato di ripetere durante la sua visita che non intende chiedere agli africani di operare una scelta (sottinteso: tra Cina e Stati Uniti) come ai tempi della guerra fredda. È una mossa abile, perché Blinken non sarebbe affatto sicuro di uscire vincitore se chiedesse agli africani di schierarsi…
Nel frattempo il covid-19 confonde le percezioni. La Cina pubblicizza in pompa magna il suo aiuto, mentre gli occidentali sono apparsi egoisti per molto tempo. La cancellazione dei voli tra l’occidente e l’Africa australe dopo l’annuncio della scoperta della variante omicron ha provocato la reazione furiosa del presidente del Malawi, che ha parlato di “afrofobia”. Forse è proprio nella battaglia comune contro il virus che avverrà la scelta delle alleanze e dei partner.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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