Le ambiguità del vertice per la democrazia voluto da Joe Biden
Un vertice per la democrazia. Chi potrebbe mai opporsi? Nessuno, a parte, naturalmente, gli autocrati e i dittatori. In realtà il quadro è più complesso di quanto sembri.
Quando Joe Biden ha presentato il progetto del vertice, durante la sua campagna elettorale, l’idea era semplice: Donald Trump aveva incendiato il paesaggio politico, dunque la bandiera della difesa della democrazia sarebbe stata un messaggio diretto e chiaro.
Un anno più tardi, però, il messaggio è molto meno chiaro. Innanzitutto perché la frontiera tra la democrazia e… come chiamarla… diciamo la “non democrazia”, non sempre è difficile da definire. Questa ambiguità ha creato un rompicapo in merito agli inviti. Al vertice, che si svolgerà il 9 e il 10 dicembre, parteciperanno infatti 110 paesi, in gran parte in videoconferenza. Quelli che non sono stati invitati, però, sono furiosi. Il Pakistan, il Brasile o l’Iraq saranno presenti nonostante lo stato delle loro democrazie lasci palesemente a desiderare. In Europa la Polonia è stata invitata, ma non l’Ungheria, unico paese escluso tra quelli dell’Unione europea.
Vaga aria da guerra fredda
La lista degli invitati è legata più agli interessi geopolitici degli Stati Uniti che ai criteri fissati da Freedom house, l’istituto di analisi che ogni anno stila una classifica delle democrazie del mondo.
Il vertice ha sicuramente una vaga aria da guerra fredda, in quanto rappresenta un “fronte democratico” approssimativo capitanato dagli Stati Uniti, leader del “mondo libero” come si diceva un tempo. L’invito di Taiwan, stato non riconosciuto ma autentica democrazia, conferisce all’incontro un profumo di alleanza in funzione anticinese.
Il problema è che rispetto alla guerra fredda il mondo è molto cambiato. La Cina (perché è la Cina al centro di tutto) ha buon gioco nel denunciare le storture della democrazia professata dagli statunitensi, che si tratti della loro società o delle loro azioni all’estero. La propaganda cinese insiste su questi aspetti diffondendo disegni di bambini uccisi dai bombardamenti americani in nome della democrazia o le immagini dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.
La Cina ha sorpreso tutti rivendicando per sé lo status di democrazia e permettendosi il lusso di descriversi come democrazia più compiuta perché più efficace. Questa tesi non convince nessuno in occidente, ma è un discorso più accettato nei paesi meno industrializzati dove il modello occidentale è precipitato dal suo piedistallo. Il vertice di Washington non cambierà questa situazione.
L’appuntamento è interessante in quanto permette di riflettere sullo stato odierno della democrazia. Il principale punto di debolezza è il fatto che il messaggio sia indebolito proprio dagli Stati Uniti – divisi come non mai e con un terzo degli elettori ancora convinto che Trump sia stato privato illecitamente della presidenza – ma anche dall’Europa, dove le tentazioni populiste e autoritarie sono un innegabile segnale di malessere.
Inoltre organizzare il contenimento della Cina o della Russia intorno all’opposizione tra democrazia e dittatura riproduce le ambiguità della guerra fredda, ignorando i problemi della democrazia nei paesi amici degli Stati Uniti e indebolendo così la causa.
Ripensare la democrazia è un obiettivo abbastanza importante da spingere i paesi che la rivendicano a riflettere insieme. Il vertice di Biden potrebbe essere una buona occasione, se solo non fosse così pieno di retropensieri geopolitici.
(Traduzione di Andrea Sparacino)