La sera del 9 settembre, mentre molti russi cominciavano a prendere coscienza della disfatta del loro esercito nel nordest dell’Ucraina, Vladimir Putin inaugurava una grande strada in occasione dell’875º anniversario della fondazione di Mosca. Da sei mesi il presidente russo si comporta come se la cosiddetta “operazione militare speciale” si svolgesse secondo i piani.
Ma in realtà niente sta andando secondo i piani, come sanno bene tutti quei russi che riescono ad avere accesso alle informazioni attraverso Telegram o ricorrendo alle fonti estere. Oggi il numero di persone informate è sufficiente per far emergere, per la prima volta dall’inizio dell’invasione, 200 giorni fa, alcune crepe nella facciata del potere russo.
Ciò che sta accadendo da una settimana nella regione di Charkiv rappresenta una grande vittoria per l’esercito ucraino, passato all’offensiva con successo. In Russia, dove l’informazione indipendente è soppressa, dove la parola “guerra” è vietata e dove qualsiasi critica è considerata un atto di tradimento, le reazioni sono inedite.
Gesti incredibili
A cominciare dalle petizioni “sacrileghe” dei politici locali di San Pietroburgo e Mosca, che chiedono addirittura la destituzione di Putin. Da San Pietroburgo è arrivata perfino una richiesta alla duma, il parlamento, affinché avvi la relativa procedura. Naturalmente questo non succederà, ma il gesto è di per sé incredibile in tempo di guerra.
Sul fronte opposto ci sono gli appelli a intensificare gli attacchi. Margarita Simonyan, nominata dal Cremlino capo dell’emittente Rt, ha chiesto, insieme ad altri agenti della propaganda, di colpire senza pietà l’Ucraina, fino a privarla dell’acqua per punire “chi serve gli interessi degli Stati Uniti per distruggerci”. I guerrafondai risparmiano Putin ma non nascondono la loro frustrazione per come è condotta la guerra.
Colpire obiettivi civili è un’ammissione di debolezza
Il portavoce del Cremlino si è accontentato di rispondere che la guerra proseguirà fino a quando tutti gli obiettivi non saranno raggiunti. È verosimile che Putin non negozierà in posizione di debolezza, perché un gesto simile non è nelle sue corde. Probabilmente il capo del Cremlino sceglierà la via dell’inasprimento dei combattimenti, anche perché per lui la vittoria è una questione esistenziale.
Putin ha ancora un margine di rilancio consistente, anche se la sua capacità di inviare più soldati resterà limitata fino a quando si rifiuterà di dichiarare la mobilitazione generale. Ma sul tipo di armi, sugli obiettivi e sui metodi il Cremlino può superare nuove soglie, come dimostrano i missili che la sera dell’11 settembre hanno bersagliato Charkiv.
Tuttavia colpire obiettivi civili è un’ammissione di debolezza, soprattutto considerando che fino al 12 luglio 2021, sette mesi prima di inviare l’esercito, Putin sottolineava che russi e ucraini sono “un unico popolo”. La sera dell’11 settembre, dopo il lancio di missili su Charkiv, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj si è rivolto ai russi: “Pensate ancora che siamo un unico popolo?”.
Come ha scritto la ricercatrice Anna Colin-Lebedev nel suo libro appena pubblicato e intitolato Jamais frères ? Ukraine et Russie, une tragédie post-soviétique (Mai fratelli? Ucraina e Russia, una tragedia postsovietica), “la società russa, in gran parte cieca davanti a questa guerra condotta in suo nome, non ha ancora compreso la profondità dello strappo, che invece per l’aggredito, cioè l’Ucraina, è un dato di fatto”.
Forse servirà una sconfitta ancora più grave per far aprire gli occhi ai russi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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