Israele va al voto, dimenticando i palestinesi
I sondaggi attualmente non sono in grado di indicare un vincitore tra i due schieramenti in corsa alle elezioni politiche israeliane di oggi, 1 novembre, perché la distanza nelle intenzioni di voto è troppo serrata.
Eppure abbiamo due certezze: la prima è che il voto non cambierà quasi nulla rispetto alla questione palestinese, convitato di pietra nel dibattito israeliano. La seconda è che, a prescindere da quale sarà la composizione, il prossimo governo dovrà affrontare volente o nolente la situazione esplosiva nei territori palestinesi.
Sono lontani i tempi in cui destra e sinistra israeliane si scontravano sulla pace con i palestinesi. La stessa parola “pace” è scomparsa dal vocabolario politico con il fallimento degli accordi di Oslo. Oggi in Israele la sinistra è ridotta ai minimi termini.
Il Partito laburista, quello di Ben Gurion ma anche di Yitzhak Rabin e Shimon Perez, che vinsero insieme il premio Nobel per la pace con Yasser Arafat nel 1994, è ormai l’ombra di se stesso. Il Meretz, l’altro partito storico di sinistra, ha lanciato l’allarme perché teme di non superare la soglia di sbarramento del 3,25 per cento per entrare alla Knesset, il parlamento israeliano.
La questione palestinese, però, non è affatto svanita, e non sparirà se non trova una qualche soluzione. Il problema è che la società israeliana affronta questo tema soltanto in termini di sicurezza.
La società israeliana affronta il problema palestinese solo in termini di sicurezza
Sul fronte palestinese le stesse cause producono gli stessi effetti. La frustrazione per l’assenza di qualsiasi prospettiva politica, le aggressioni continue e violente dei coloni israeliani, il discredito crescente dell’Autorità palestinese guidata da Abu Mazen e l’eredità del fallimento degli accordi di Oslo producono un cocktail esplosivo. La violenza minaccia di travolgere ancora una volta la Cisgiordania, animata da una nuova generazione che non ha vissuto le prime due intifada, le ribellioni degli anni ottanta e duemila.
Dall’inizio dell’anno si contano già 120 morti in Cisgiordania, in una terza intifada strisciante che ancora non è stata proclamata. Gli incidenti si sono verificati a Hebron, unica località in cui i coloni controllano una parte del centro della città palestinese, a Jenin, dove a giugno la celebre giornalista palestinese-statunitense Shireen Abu Akleh è stata uccisa da un soldato israeliano, e più recentemente a Nablus, la grande città del nord della Palestina.
A Nablus giovani palestinesi di ogni orientamento hanno creato il nuovo gruppo armato “Areen al Oussoud”, la Fossa dei leoni, di cui molti leader sono stati uccisi nel corso degli scontri con l’esercito israeliano.
Ma questa situazione non è neanche citata nella campagna elettorale israeliana. Però le distanze sono molto ridotte all’interno del territorio costituito da Israele e dai territori palestinesi, che lo stato ebraico ha conquistato nel 1967. Basta un’ora di macchina per raggiungere Tel Aviv da Hebron, passando dalla città più da incubo dei territori al paradiso spensierato e prospero sulle rive del Mediterraneo. Due mondi che si danno le spalle, separati da un muro e dai posti di blocco dell’esercito israeliano.
Il paradosso è che l’esito delle elezioni del 1 novembre potrebbe essere deciso da altri palestinesi, quelli che hanno la cittadinanza israeliana e sono rimasti in Israele dal 1948. Questa comunità oggi rappresenta il 20 per cento della popolazione del paese. Tutti gli analisti concordano sul fatto che il tasso di partecipazione degli elettori arabi sarà decisivo per le speranze di Benjamin Netanyahu di ottenere una maggioranza: con meno del 50 per cento dell’affluenza degli arabi israeliani Netanyahu vincerà; con più del 70 per cento sarà certamente sconfitto.
Si tratta di un paradosso perché questo ruolo di arbitro non permette ai palestinesi d’Israele di pesare sulla questione della pace, che invece resta fuori dal dibattito. È solo uno dei tanti paradossi di un’equazione senza soluzione.
Traduzione di Andrea Sparacino