Neutralizziamo subito il grande spavento arrivato il 2 novembre dopo l’annuncio del lancio di 23 missili nordcoreani con la conseguente risposta della Corea del Sud: non siamo all’inizio di una nuova guerra di Corea o, per essere più precisi, alla continuazione di un conflitto che, tecnicamente, ha vissuto soltanto un armistizio nel 1953 senza mai arrivare a un trattato di pace.

La guerra, insomma, non è alle porte. Eppure la comunicazione tra nord e sud a colpi di missili alimenta il rischio di un incidente e dell’innesco di un meccanismo incontrollabile. Questa prospettiva è tanto più folle se consideriamo che uno dei due paesi coinvolti, la Corea del Nord, è in possesso dell’arma atomica mentre l’altro beneficia dell’ombrello nucleare statunitense.

In realtà siamo davanti a uno scenario già noto. Kim Jong-un, il terzo Kim alla guida di un regime comunista dinastico che non somiglia a nessun altro, vorrebbe un riconoscimento internazionale dello status di potenza nucleare per il suo paese, o di potenza tout court. Kim aveva creduto di essere vicino all’obiettivo nel 2018 e nel 2019 in occasione dei suoi spettacolari incontri con Donald Trump, a Singapore e ad Hanoi. Ma alla fine la storia ha preso un’altra piega.

Una sola risorsa
Perché il lancio di missili? La ragione è che Kim non ha altri mezzi per essere preso sul serio. La Corea del Nord non è una potenza economica (diversamente dal vicino del sud che ha un successo sfacciato) dunque ha una sola risorsa, sviluppata e perfezionata dalle tre generazioni di Kim al potere: gli armamenti.

Prima di dare il via a un periodo di distensione nel 2018, inviando sua sorella Kim Yo-jong in visita in Corea del Sud e successivamente incontrando di persona il presidente statunitense, Kim Jong-un aveva effettuato il suo sesto esperimento nucleare e una serie di test sui missili balistici. Il leader nordcoreano pensava di aver creato un rapporto di forze favorevole, ma l’entourage di Trump si era rifiutato di consentire al presidente di firmare qualsiasi accordo che non prevedesse una denuclearizzazione verificabile della Corea del Nord.

Un settimo esperimento nucleare potrebbe essere il passo conclusivo di un’annata molto combattiva per Pyongyang

E così siamo tornati al confronto, perché la dimostrazione di forza precedente non ha funzionato. Quest’anno Pyongyang ha effettuato un numero record di test missilistici e ha moltiplicato le dichiarazioni aggressive. Fino allo scambio di missili del 2 novembre, escalation controllata malgrado tutto e destinata a contrastare alcune manovre congiunte tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud.

Presumibilmente la prossima tappa sarà un settimo esperimento nucleare, uno sviluppo che Seoul e Washington attendono da settimane. Potrebbe essere il passo conclusivo di un’annata molto combattiva per la Corea del Nord. Nel contesto della guerra in Ucraina questo test non comporterebbe nuove sanzioni per Pyongyang, perché la Cina e la Russia si opporrebbero.

E dopo? Esiste ancora spazio per la diplomazia? La grande differenza rispetto al 2018 è che a Seoul è cambiato il vertice, e il nuovo presidente Yoon Suk-yeol è schierato molto più a destra del suo predecessore Moon Jae-in, che sognava la pace con il nord a qualsiasi costo.

Gli Stati Uniti non sono pronti a riconoscere lo status di potenza nucleare della Corea del Nord, soprattutto nel contesto internazionale attuale. Ma ormai non hanno più alcun mezzo per convincere Pyongyang a rinunciare all’arma atomica, e ne sono consapevoli. Questa impasse spinge Kim Jong-un ad alzare la posta. Il futuro ci riserva senz’altro altri missili e altri test nucleari.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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