È possibile salvare il pianeta e al contempo opprimere i suoi abitanti? La domanda potrebbe sembrare assurda, anche perché quello a un ambiente pulito e vivibile oggi è considerato uno dei diritti umani.
Eppure la Cop27 si sta svolgendo in un paese che viola i diritti dei suoi cittadini. Siamo davanti a una contraddizione fatale. L’Egitto del maresciallo Abdel Fattah al Sisi, dove il 6 novembre è stata inaugurata la ventisettesima conferenza mondiale sul clima, ha vissuto una deriva talmente dispotica da essere considerato più autoritario del regime di Mubarak, rovesciato dalla rivoluzione del 2011.
Simbolo di questa degenerazione è il destino di Alaa Abdel Fattah, una delle figure più in vista delle rivolte di piazza Tahrir del 2011 e pioniere dell’attivismo democratico online. Dopo la caduta di Mubarak, Abdel Fattah ha trascorso più tempo in carcere che in libertà. Quest’uomo di quarant’anni, imprigionato con l’accusa di aver diffuso “notizie false”, è in sciopero della fame parziale da aprile. Il 6 novembre ha smesso di bere, suscitando preoccupazione per la sua salute già indebolita.
Dialogo e rispetto
Il collegamento tra questa vicenda e la Cop27 è stato evidenziato da Greta Thunberg, la giovane militante ambientalista che prima dell’inizio del vertice di Sharm el Sheik ha mostrato un cartello per chiedere la liberazione di Abdel Fattah.
Qualcuno potrebbe pensare che per gli attivisti come Thunberg la causa del pianeta prevalga su quelle individuali, a prescindere da tutto. E invece la giovane ambientalista ha avuto l’intelligenza di collegare le due cause e far presente che è possibile chiedere un dialogo tra gli stati e allo stesso tempo pretendere il rispetto dei diritti umani fondamentali.
Come possiamo conciliare l’impegno contro la crisi climatica con le guerre e le tensioni geopolitiche?
Questo impegno è tanto più encomiabile se consideriamo che in vista della Cop27 il regime del maresciallo Al Sisi ha avviato una campagna di comunicazione per dare l’impressione di un dialogo con la società civile. Secondo i diretti interessati si tratta solo di una manovra di facciata per smorzare le critiche prima dell’evento.
Il clima, dunque, non è una causa isolata dalle altre, anche se ancora è difficile collegare le diverse battaglie. Vi ricordate il dibattito “fine del mondo o fine mese” all’epoca dei gilet gialli in Francia? E oggi come possiamo conciliare l’impegno contro la crisi climatica con le guerre e le tensioni geopolitiche che agitano il pianeta?
All’inizio del suo mandato Joe Biden aveva incaricato l’ex segretario di stato John Kerry di gestire il negoziato climatico. Nominando un abile conciliatore Biden aveva cercato di salvare la diplomazia climatica da tensioni sempre più forti. Kerry si è perfino recato in Cina quando i rapporti tra i due paesi sprofondavano in una nuova guerra fredda. Ma non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi, e i ponti sono stati parzialmente tagliati.
Al vertice della Cop di Sharm el Sheik, il primo incontro di questa rilevanza che si svolgerà in presenza dopo la pandemia, avremmo sperato in un progresso su questo piano. Ma il miglioramento sarebbe dovuto partire da un esempio del paese ospitante. Non possiamo salvare il pianeta e contemporaneamente tenere in prigione per reati politici Alaa Abdel Fattah e i suoi compagni. In questo c’è una contraddizione fatale che solo la realpolitik dei governi impedisce di denunciare. A questo punto, però, è difficile credere al resto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Leggi anche:
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it