Pechino fa un passo indietro sulla politica zero covid
È un grande classico della gestione dei momenti di crisi in Cina: il potere reprime chi ha osato turbare la sacrosanta “stabilità sociale” ma al contempo gli concede una soddisfazione parziale.
Può sembrare paradossale. Perché reprimere se le ragioni della rabbia sono giustificate? Il fatto è che il governo cinese non ha l’abitudine di negoziare né di riconoscere chi lo sfida, neanche se in fondo non ha completamente torto.
Dopo l’ondata di manifestazioni contro i lockdown, accompagnate spesso da slogan direttamente ostili nei confronti del numero uno cinese Xi Jinping, la repressione è riuscita a scongiurare la crescita del movimento: università chiuse, dispiegamento delle forze dell’ordine, arresti mirati e perfino il controllo dei cellulari nella metropolitana per verificare che non contenessero applicazioni vietate.
Un esperimento
Ma al contempo a Guangzhou (Canton), uno dei punti caldi della crisi, si sono manifestati i primi segnali di ammorbidimento della politica anticovid.
È la fine della strategia zero covid? Troppo presto per dirlo, ma il 30 novembre i cittadini di Guangzhou – megalopoli con 15 milioni di abitanti nel sud della Cina, dove la sera del 29 novembre si sono verificati scontri con la polizia – hanno ricevuto la sorprendente notizia della rimozione delle barriere e della fine dei tamponi quotidiani in metà della città, il tutto in un contesto segnato da un forte aumento dei contagi, nella città come nel resto del paese.
Il messaggio della popolazione è arrivato al vertice
Potrebbe trattarsi di un esperimento di una gestione più morbida, una mossa che le autorità cinesi compiono spesso per valutarne l’impatto prima di estenderla ad altre città. Questo passo indietro locale si accompagna all’annuncio dell’accelerazione del programma vaccinale per gli anziani, uno dei punti deboli della Cina, e alle dichiarazioni che vorrebbero addossare alle autorità locali la responsabilità per le misure più eccessive.
La vicenda dimostra che il messaggio della popolazione è arrivato al vertice e che Pechino ha scelto di allentare la tensione davanti a una situazione potenzialmente esplosiva, mostrandosi al contempo inflessibile rispetto a quelle che il Partito comunista ha definito “attività di infiltrazione e sabotaggio da parte di forze ostili”.
Il potere prende l’allerta estremamente sul serio, soprattutto considerando il contesto economico difficile con un rallentamento dell’attività che alimenta il malcontento e la preoccupazione. Pur senza esagerare il parallelo con il movimento democratico di piazza Tiananmen del 1989, i leader cinesi ricordano bene che all’epoca il contesto era segnato da una forte inflazione e dalla rabbia per la corruzione diffusa, e che la morte di un ex segretario generale del partito, Hu Yaobang, aveva consolidato tutte le rivendicazioni della popolazione.
Coincidenza vuole che il 30 novembre sia morto l’ex presidente Jiang Zemin, promosso alla guida del partito all’indomani del massacro di Tiananmen. Immediatamente gli omaggi hanno evidenziato tutto ciò in cui Jiang era diverso da Xi. La sera del 30 novembre gli studenti di Shanghai rimpiangevano “un’epoca di tolleranza e apertura che non abbiamo più conosciuto”.
Jiang non è popolare quanto lo era Hu nel 1989, ma la sua morte può comunque servire da pretesto per contrapporre il dirigente buono a quello cattivo. Un motivo in più per Xi per disinnescare la crisi, anche se tutto, nel suo modo di governare, procede nel segno della fermezza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)