Nel viaggio di Volodymyr Zelenskyj a Washington c’è un grande paradosso: è un miscuglio tra un momento realmente storico – la presidente della camera uscente Nancy Pelosi ha fatto il parallelo con il discorso di Winston Churchill davanti al congresso nel 1941, in piena seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti non erano ancora impegnati – e un intrigo di politica interna statunitense.

In questo senso è molto significativo uno scambio di battute avvenuto al margine della visita. Il senatore dello stato di New York Chuck Schumer, leader democratico al senato, ha dichiarato di aver chiesto al presidente Zelenskyj cosa accadrebbe se il congresso non approvasse gli aiuti per l’Ucraina. Risposta di Zelenzkyj: “Accadrebbe che perderemmo la guerra”. Commento di Schumer: “Spero che tutte le persone convinte che non dovremmo aiutare l’Ucraina abbiano sentito questo discorso”.

Per qualche ora Zelenskyj si è spostato all’altro capo del mondo lasciandosi alle spalle un paese in guerra, per chiedere che l’impegno americano a sostegno dell’Ucraina resti totale. Questo messaggio è rivolto prima di tutto a una fazione del Partito repubblicano, ovvero ai “trumpiani”.

Stoccata di richiamo
Di recente, infatti, sono emersi i primi tentennamenti tra i repubblicani, a cominciare dalla frase con cui Kevin McCarthy, prossimo presidente della camera dei rappresentanti in seguito alle elezioni di metà mandato, ha fatto presente che l’Ucraina non dovrebbe ricevere un “assegno in bianco”. Risposta di Zelenskyj il 21 dicembre: “Il vostro aiuto non è carità, ma un sostegno alla stabilità del mondo e alla democrazia, che noi gestiamo in modo responsabile”.

Nel maggio scorso 57 repubblicani alla camera e undici al senato avevano votato no a un aiuto da 40 miliardi di dollari per l’Ucraina. Ora sul tavolo c’è un nuovo pacchetto da 45 miliardi, che sarà sottoposto al voto. Quante saranno le defezioni?

Il ruolo degli Stati Uniti è e resta assolutamente vitale

L’assistenza nei confronti di Kiev non sembra minacciata a breve termine, ma la stoccata del richiamo “churchilliana” fatta da Zelenskyj con il suo discorso del 21 dicembre vorrebbe ricreare una coesione bipartisan approfittando dell’indebolimento della presa di Donald Trump sui repubblicani, ormai visibile dopo il relativo fallimento alle elezioni di metà mandato.

Il 21 dicembre diverse voci hanno espresso un certo disappunto per il fatto che Zeleneskyj si sia recato a Washington per la sua prima visita all’estero dall’inizio della guerra, e non a Bruxelles o in una capitale europea.

Ma dobbiamo essere onesti: anche se negli ultimi dieci mesi l’Europa non si è tirata indietro, non ha né i mezzi né la coerenza e la volontà politica necessari per garantire gli aiuti militari che sono stati forniti all’esercito e allo stato ucraino.

Il ruolo degli Stati Uniti è e resta assolutamente vitale, come dimostra la recente decisione di Biden di inviare una batteria di missili Patriot a Kiev.

Alla fine dei conti, comunque, sono i soldati ucraini a combattere e morire, e sono i civili ucraini a vivere sotto la minaccia di missili e droni russi. L’aiuto internazionale rende la loro resistenza possibile, ma non è una garanzia di vittoria. D’altro canto Putin diceva che il denaro non era un problema per il suo esercito, ma questo non è bastato per vincere.

In realtà il discorso storico di Zelenskyj è probabilmente quello pronunciato il 20 dicembre davanti ai soldati al fronte, a Bakhmut, città dove si svolgono i combattimenti più feroci. “La storia ricorda solo i vincitori, i più forti e i più coraggiosi”, ha detto Zelenskyj. Il messaggio di Bakhmut è rivolto anche ai sostenitori dell’Ucraina, a Washington ma anche in Europa.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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