È uno dei grandi paradossi della nostra epoca: per risolvere le dipendenze e le fragilità che emergono durante crisi come quella del covid-19 o della guerra in Ucraina, corriamo il rischio di crearne di nuove, altrettanto tossiche. La transizione ecologica, la digitalizzazione dell’economia e le necessità della difesa sono ambiti in cui questo pericolo è legato all’approvvigionamento di minerali strategici.
Il 16 marzo la Commissione europea ha reso pubblico un piano per sganciarsi da questo ingranaggio fatale, fissando una serie di obiettivi realistici e relativamente a breve termine (da raggiungere entro la fine del decennio in corso).
Il piano va controcorrente rispetto ai dogmi della globalizzazione degli ultimi trenta o quarant’anni, basati su catene di rifornimento estremamente fragili da un capo all’altro del pianeta. Per onestà dobbiamo riconoscere che questo sistema assicurava anche la possibilità di appaltare lontano dall’Europa i lavori meno “puliti”, come l’estrazione dei minerali o il loro raffinamento.
Il futuro in gioco
Ora il pendolo oscilla in direzione opposta, se possibile in condizioni ambientali e sociali migliori. L’Europa sarà capace di portare a termine i suoi obiettivi restando al contempo il fulcro della transizione ecologica e digitale? La sfida è chiaramente complessa.
Il piano presentato dalla Commissione comprende una lista di minerali cruciali o strategici che ritroviamo nelle tecnologie pulite, come le batterie o i pannelli solari, ma anche nei satelliti, nelle apparecchiature informatiche e nelle armi. La richiesta di questi minerali continua a crescere. Secondo le previsioni, per esempio, la domanda di litio, essenziale per le batterie delle auto elettriche, si moltiplicherà per dodici entro il 2030, mentre quella di terre rare indispensabili per gli impianti eolici quadruplicherà o quintuplicherà nello stesso periodo.
Viene da chiedersi fino a che punto i 27 siano nelle condizioni di portare a termine la transizione del loro modello
Per garantire l’autonomia del continente, la Commissione chiede agli stati europei di estrarre dal suolo dell’Ue il 10 per cento delle materie necessarie entro il 2030. In quest’ottica, dopo anni in cui qualsiasi ambizione mineraria era stata abbandonata, in Francia è prevista l’apertura di una miniera di litio.
Bruxelles chiede inoltre che il 15 per cento del fabbisogno sia soddisfatto attraverso il riciclo dei materiali, un settore in piena espansione e la cui natura è sicuramente virtuosa. Un altro obiettivo: limitare al 65 per cento l’apporto di un unico paese terzo all’approvvigionamento di un minerale indispensabile, in modo da non ritrovarsi in condizioni di dipendenza da un solo fornitore, come accaduto nel caso del gas russo.
Viene da chiedersi fino a che punto i 27 siano nelle condizioni di portare a termine la transizione del loro modello e contemporaneamente creare nuovi circuiti di approvvigionamento, riavviare settori a cui l’Europa aveva voltato le spalle e garantire la propria sovranità. La posta in gioco è vertiginosa.
L’esito di questa missione dipenderà soprattutto dai rapporti che l’Europa sarà capace di stringere con i paesi produttori di minerali. In questo senso la situazione attuale è problematica, prima di tutto perché la Cina si accaparra da anni buona parte delle risorse minerarie in Africa e in America Latina, dando prova di una lungimiranza che all’occidente è mancata.
Tra l’altro Pechino ha accettato di pagare il prezzo del degrado ambientale sul suo territorio, per esempio sfruttando le terre rare che il resto del mondo non desiderava più.
Negli ultimi mesi i 27 hanno moltiplicato i progetti ambiziosi, da quelli per le batterie a quelli per i semiconduttori. L’Europa, stretta tra il rischio egemonico cinese e l’attrattiva degli Stati Uniti, con la loro energia a prezzi contenuti e le loro sovvenzioni generose, si gioca il suo futuro.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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