I morti si contano a centinaia, i feriti a migliaia. Gli operatori umanitari non riescono a lavorare, mentre il sistema sanitario è al collasso. La guerra che da una settimana oppone due fazioni delle forze armate del Sudan si è trasformata in un disastro umanitario le cui prime vittime, come sempre, sono i civili.

I due uomini forti che si affrontano in questa battaglia per il potere incarnano due versioni della stessa oppressione nei confronti del popolo sudanese, un sistema che la rivoluzione del 2019 aveva cercato di superare pacificamente. Ma come è accaduto spesso nel corso della storia, questo movimento è stato dirottato da chi ritiene che il potere si conquisti solo con i fucili.

Nel 2019, dopo trent’anni di dittatura islamista, i sudanesi si sono ribellati contro Omar al Bashir, accusato di genocidio dalla Corte penale internazionale. Ma la rivoluzione democratica è stata sabotata dai militari, in particolare dai due protagonisti della guerra attuale, il generale Abdel Fattah al Burhan, capo di stato maggiore, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, comandante di una milizia.

Narrative contrapposte
La società civile sudanese è ancora vivace, e fino a poco tempo fa si batteva per far rispettare un accordo di transizione verso un governo civile. Il problema è che i militari non hanno mai avuto intenzione di tornare nelle caserme. La loro sete di potere è troppo forte.

Come spiegano gli autori di un libro recente sulla rivoluzione sudanese, i manifestanti che chiedevano una trasformazione totale della politica del paese si sono trovati a dover contrastare gli intrighi di un gruppo di generali che possono contare su importanti appoggi all’estero e che hanno forti interessi nell’economia del paese. Il titolo del libro è “democrazia incompiuta”.

Né Al Buhran né Hemetti possono presentarsi come paladini della democrazia

I generali Al Burhan ed Hemetti costruiscono due narrative contrapposte per rivendicare il diritto a guidare il paese, ma resta il fatto che il primo è stato il pilastro della dittatura di Omar al Bashir fino a quando ha sentito cambiare il vento, mentre il secondo è responsabile dei massacri in Darfur e delle terribili violenze contro i manifestanti a Khartoum. Nessuno dei due, insomma, può presentarsi credibilmente come paladino della democrazia.

Alcuni paesi della regione, come Gibuti o la stessa Unione africana, stanno tentando una mediazione e invitano al cessate il fuoco, finora senza successo.

Soprattutto esistono altri attori che gettano benzina sul fuoco. Ognuno dei due generali ha i suoi sostenitori e la sua rete internazionale, dunque questa guerra rischia seriamente di diventare un ennesimo conflitto “per procura” a nome di interessi più vasti: l’Egitto da un lato, gli Emirati Arabi Uniti o il generale libico Khalifa Haftar dall’altro, per non parlare della milizia russa Wagner, mai lontana quando si apre un vuoto strategico da qualche parte in Africa.

Nell’attuale caos mondiale, con le Nazioni Unite paralizzate e incapaci di svolgere la loro funzione, le forze disgreganti hanno mano libera. La rivoluzione democratica sudanese non è ancora morta, ma per il momento è messa a tacere dal frastuono delle armi in una battaglia tra due generali avidi di potere.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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