Tra Cina e Stati Uniti finisce anche la diplomazia dei panda
Ya Ya è una femmina di panda il cui destino è diventato una metafora dello stato dei rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti, che definire problematici sarebbe un eufemismo.
Ya Ya viveva da oltre vent’anni nello zoo di Memphis, negli Stati Uniti, ricordo di un periodo in cui i rapporti erano più cordiali. All’epoca, quando Pechino prestava il suo animale feticcio in segno di amicizia, si parlava di “diplomazia del panda”.
Ya Ya viveva in coppia (se posso usare questa formula) con Le Le, un esemplare maschio. Ma nel 2021 Le Le è morto a causa di un problema cardiaco, e da allora Ya Ya non si è più ripresa. L’animale ha cominciato a perdere peso, poi il suo pelo si è diradato. Ed è qui che è entrata in gioco la politica.
L’animale nazionale non può sfuggire alla tensione
Quando alcune foto di Ya Ya in uno stato pietoso hanno cominciato a circolare in Cina, gli americani sono stati accusati di averla maltrattata. Così è emerso il clamore nazionalista, con un messaggio chiaro: bisognava rimpatriare l’animale. La settimana scorsa, dunque, Ya Ya è tornata in Cina a bordo di un volo speciale, seguito con attenzione da centinaia di milioni di cinesi sui social network. A Shanghai è stata accolta come una star.
Perché la vicenda ha assunto una dimensione politica? Semplice: perché si tratta degli Stati Uniti e perché si tratta dei panda. Il degrado dei rapporti tra i due paesi è così acuto che tutto assume una portata simbolica. Il panda nazionale non poteva certamente sfuggire a questo meccanismo.
I panda sono un simbolo, ma i rapporti sino-americani sono pessimi da quattro anni.
Intanto sui social network gli utenti cinesi pubblicano foto di panda che vivono in Russia e sono in ottime condizioni di salute, mentre Pechino ha appena concesso allo zoo francese di Beauval, l’unico in Francia a ospitare una coppia di panda, il diritto di tenerli per altri tre anni, concordando un adeguato pagamento. Il mese scorso il direttore dello zoo di Beauval aveva accompagnato Emmanuel Macron nella sua visita in Cina, segno che si tratta evidentemente di un affare di stato.
In Cina il panda gigante è oggetto di culto. Su un sito dedicato è possibile seguire 24 ore su 24 la vita dei panda ripresi da una telecamera nel Sichuan, la loro regione di origine. Quando la specie rischiava l’estinzione, i ricercatori avevano provato di tutto per stimolare la libido degli animali, dai film porno al Viagra. Oggi che i panda giganti non sono più in pericolo, di sicuro Pechino non ha nessuna intenzione di lasciarli morire nelle mani degli imperialisti americani.
I panda sono evidentemente un simbolo, ma in generale i rapporti sino-americani continuano a peggiorare da quattro anni. Il degrado è stato bipartisan, sia sotto Donald Trump sia durante l’amministrazione Biden.
La settimana scorsa il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha esposto la dottrina americana in un discorso molto importante. In particolare Sullivan ha fatto propria una sfumatura sostenuta dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen: ridurre i rischi con la Cina ma senza ribadire la volontà di un “disaccoppiamento” (decoupling).
In sostanza significa tagliare i legami nel campo delle tecnologie di punta che riguardano la sicurezza degli Stati Uniti, ma senza interrompere il flusso degli affari tra i due paesi, che tra l’altro continua a crescere. Questo annuncio di Sullivan è sembrato un nuovo tentativo di allentare la tensione dopo l’apertura della settimana precedente da parte del segretario del tesoro Janet Yellen.
Pechino non ha ancora reagito al gesto di Sullivan, arrivato dopo settimane di aggressioni verbali con Washington. In ogni caso, se vogliamo interpretare il rimpatrio di Ya Ya come un simbolo, stavolta sembra che sia proprio la Cina a volere il “disaccoppiamento”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)