Nessuno può sorprendersi davanti alla ripresa delle ostilità nel Nagorno Karabakh, enclave armena all’interno del territorio dell’Azerbaigian. La guerra è la conseguenza logica del blocco imposto da mesi dall’esercito azero, che approfittando della crisi del sistema internazionale provocata dall’invasione russa dell’Ucraina sta cercando di sfruttare il suo vantaggio militare.

Chi può impedire all’Azerbaigian di conquistare Stepanakert, capitale dell’enclave ancora popolata da diverse decine di migliaia di armeni? Gli azeri, che hanno definito l’intervento “operazione antiterrorismo” in risposta alla morte di sei agenti di polizia, possono contare su un esercito molto più forte.

La Russia, tradizionale “gendarme” del Caucaso, è occupata altrove, e già nel 2020 aveva permesso che l’Armenia perdesse l’ultimo guerra di un lungo conflitto con l’Azerbaigian, nonostante il trattato di difesa che in teoria impegnava Mosca a difendere il paese. Quanto all’Onu, ormai ha solo una funzione di tribuna, senza la minima capacità di azione.

Un’onda d’urto considerevole
Gli armeni del Karabakh sono dunque soli, anche perché la repubblica armena è troppo debole per ribaltare il rapporto di forze. Colpevole di aver dichiarato che l’esercito armeno non interverrà, il primo ministro Nikol Pashinyan è diventato il bersaglio delle proteste violente a Erevan, la capitale del paese.

Il 19 settembre il governo di Baku ha inviato agli armeni del Karabakh un ultimatum che, se sarà portato alle estreme conseguenze, potrebbe provocare la scomparsa dell’enclave. L’esercito azero vorrà quanto meno disarmare i separatisti e reintegrare il Nagorno Karabakh nel proprio territorio.

È evidente che oggi esiste il rischio di una pulizia etnica che costringerebbe alla fuga tutti gli armeni che non vogliono diventare cittadini azeri. D’altronde si tratta di una minoranza senza alcuna protezione all’interno di un paese considerato come nemico. Baku è determinata a proseguire su questa strada, anche perché l’Armenia, nel periodo in cui ha controllato la zona – fino alla sconfitta del 2020 – aveva spinto circa trecentomila azeri a lasciare i loro villaggi.

Davanti all’aggressività con cui il governo azero ha respinto le proteste francesi, arrivate il 19 settembre, si ha l’impressione che Baku non tema nulla. Forte del sostegno della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan e delle sue esportazioni di idrocarburi, l’Azerbaigian ritiene che il rapporto di forze gli sia favorevole.

L’onda d’urto di questi eventi è considerevole. Prima di tutto in Armenia, dove una parte della popolazione non tollererebbe l’abbandono dell’enclave e ne farebbe pagare il prezzo al governo Pashinyan. Ma soprattutto, dopo l’invasione dell’Ucraina, questo è il secondo caso in cui un paese ricorre alla forza per risolvere dei contrasti con altre nazioni. Nel vuoto del governo mondiale c’è il rischio che non sia l’ultima volta.

L’Azerbaigian non ha permesso all’Europa di ricoprire il ruolo di mediatore. La Francia e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno tentato di conciliare i punti di vista, ma senza averne il peso necessario, soprattutto considerando che di recente la Commissione europea si è rivolta all’Azerbaigian chiedendogli di aumentare la fornitura di gas per compensare la rinuncia a quello russo.

Tutto questo evidenzia un’incapacità di prevedere gli eventi sia da parte dell’Armenia, che non ha tenuto conto di un rapporto di forze ormai rovesciato, sia del mondo intero, incapace di disinnescare in tempo la crisi. Purtroppo oggi c’è il rischio concreto che sia la violenza ad avere l’ultima parola.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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