Un conflitto irrisolto è sempre una bomba a orologeria. È successo la settimana scorsa nel Caucaso, con la riconquista del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaigian e migliaia di armeni in fuga dalle loro case.
La stessa situazione minaccia di ripresentarsi tra Serbia e Kosovo. Il Kosovo, la cui popolazione è composta in maggioranza da persone di origine albanese, è nato appena venticinque anni fa al termine di una guerra esplosa sull’onda lunga del crollo della Jugoslavia. Oggi la regione sta vivendo gravi incidenti.
Tutto è cominciato con l’omicidio di un agente di polizia kosovaro, seguito da uno scontro con un commando armato serbo rifugiatosi in un monastero ortodosso nei pressi del confine tra i due paesi. Tre degli assalitori sono stati uccisi, altri sei arrestati. Le autorità hanno riferito di aver recuperato un arsenale. Secondo Pristina è stata un’operazione “sostenuta e organizzata dalla Serbia”.
La vicenda ha inasprito il contrasto con la Serbia, che non riconosce la sovranità del Kosovo. Belgrado sostiene la minoranza serba che vive nel nord del paese, proprio dove si sono verificati gli incidenti.
Una crisi internazionale
Da settimane la tensione continua a crescere, soprattutto dopo quello che è successo in quattro comuni a maggioranza serba situati nel nord del Kosovo. I problemi sono cominciati quando ad aprile gli elettori serbi hanno boicottato le elezioni municipali e si sono visti imporre sindaci di origine albanese.
Il primo ministro kosovaro Albin Kurti è un nazionalista che vuole mettere fine all’irredentismo serbo ma si scontra non solo con l’ostinata resistenza dei quarantamila serbi che vivono nel paese, ma anche con le critiche di europei e statunitensi, che lo ritengono un provocatore.
Questo conflitto locale si sta trasformando rapidamente in una crisi internazionale. Il problema è che Serbia e Kosovo continuano a non avere rapporti diplomatici, dunque qualsiasi divergenza può potenzialmente degenerare in uno scontro aperto.
Il 25 settembre la Russia ha ribadito il proprio sostegno alla Serbia, ben felice di gettare benzina su un fuoco che riguarda i paesi della Nato. Venticinque anni dopo l’indipendenza, infatti, il Kosovo è ancora sotto la protezione dell’Alleanza atlantica, che mantiene una presenza militare nel paese.
Solo un centinaio di stati dell’Onu (su 190) riconosce il Kosovo. L’Unione europea tenta con molta fatica di portare avanti una mediazione tra Belgrado e Pristina, utilizzando lo strumento dell’adesione della Serbia entro il 2030. Ma questa prospettiva sembra ancora troppo lontana per frenare le pulsioni nazionaliste su entrambi i fronti.
Eppure l’idea europea è l’unica che può pacificare un conflitto intricato, come è già successo in altre occasioni. In questo momento è indispensabile spegnere un incendio che minaccia di divampare nuovamente nel cuore dei Balcani.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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